Psichiatria

Comportamento a rischio suicidio: come prevenirlo e gestirlo

Il comportamento suicidario è influenzato da una molteplicità di fattori. Riconoscere i segnali di pericolo e attuare strategie di prevenzione è fondamentale per aiutare i soggetti a rischio.

Comportamento a rischio suicidio: come prevenirlo e gestirlo

Il suicidio è sempre enigmatico, misterioso e non sempre evitabile, ma molto spesso è preceduto da una richiesta di aiuto che chiede di essere accolta. Ecco una breve guida per riconoscere e gestire un paziente a comportamento suicidario.

Il suicidio è un argomento che fa allarmare, destare un senso di smarrimento e che fa temere per le conseguenze.

In questo articolo esamineremo i fattori di rischio associati al suicidio, esploreremo strategie di prevenzione e discuteremo di come affrontare il disagio psicologico che può contribuire alla depressione e al comportamento suicidario.

Quali fattori influenzano il rischio di suicidio?

Per identificare un profilo con comportamento suicidario è necessario definire i fattori di rischio e i fattori protettivi, che possono aumentare o diminuire la probabilità che una persona consideri l’idea del suicidio, lo tenti o lo commetta. Questi fattori hanno un effetto cumulativo, un ruolo e un peso diversi a seconda delle varie fasi e dei periodi evolutivi, degli eventi scatenanti (“life-events”), delle caratteristiche di personalità e del particolare ambiente di vita di una persona.

Per riconoscere i segnali di pericolo è essenziale valutare:

  • la situazione clinica attuale (fattori di rischio)
  • la storia personale (pregressi tentativi e fattori precipitanti)
  • la storia familiare
  • la situazione contingente (fattori protettivi)
  • l’ideazione, la progettualità e l’intenzione suicidale

Principali fattori di rischio:

  • fattori generici: età compresa tra 45-55 e 65-75, sesso maschile, stato civile (essere divorziati, vedovi o single), occupazione (essere disoccupati o in pensione);
  • fattori genetici, biologici ed evolutivi: storia familiare caratterizzata da suicidi, alcolismo e problemi di salute mentale, esperienze negative precoci (come la perdita di un genitore in tenera età, abusi);
  • caratteristiche psicopatologiche e di personalità: rigidità del pensiero (pensiero dicotomico, poco modificabile), perfezionismo, impulsivitàaggressività, bassa autostima, senso di inutilità personale, disperazione-pessimismo, stati misti e instabilità affettiva, scarsa capacità di adattamento (“coping”);
  • fattori di rischio a breve termine: pregressi tentativi di suicidio, fattori ambientali (divorzio, separazione, vedovanza, pensionamento, vivere soli o essere socialmente isolati, disoccupazione), malattie psichiatriche (depressione, alcolismo e disturbi di personalità), abuso di alcool, abuso di droghe, esordio acuto di patologie mediche (gravi, dolorose o croniche invalidanti; Aids);
  • fattori precipitanti come eventi di vita stressanti, separazione coniugale, lutto, problemi familiari, cambiamenti di lavoro o economici, rifiuto da parte di una persona significativa, senso di vergogna legato al fatto di essere o sentirsi considerati colpevoli di qualcosa, essere detenuti in carcere (specialmente una recente detenzione), gravidanza non desiderata, violenze, traumi, migrazione, mobilità sociale, ambienti particolari (per esempio caserme).

I fattori protettivi possono essere:
– immagine positiva di sé,
– adeguate abilità di problem solving,
– comportamento volto alla ricerca di aiuto,
– supporto sociale e/o familiare,
– flessibilità cognitiva,
– forte senso di speranza,
– assenza di eventi traumatici durante l’età evolutiva,
– trattamento adeguato di eventuali disturbi psichiatrici,
– non utilizzo di alcol e sostanze.

Quali sono i comportamenti di chi si vuole suicidare?

I comportamenti indicativi di una persona che potrebbe essere a rischio di suicidio possono variare da individuo a individuo, ma alcuni dei più comuni possono includere:

  • pensieri di morte
  • umore depresso e/o cambiamenti improvvisi di atteggiamento o umore
  • isolamento sociale
  • autolesionismo

È essenziale tenere presente che, anche se le conversazioni sul suicidio possono essere difficili, è fondamentale affrontarle apertamente. Va inoltre ricordato che parlare di suicidio non aumenta il rischio, al contrario permette di cogliere meglio gli aspetti del problema e fornire un aiuto più efficace.

È possibile prevenire il suicidio?

Quando si affronta la questione della prevenzione, è cruciale riconoscere che essa si sovrappone in parte alla terapia vera e propria. La più importante strategia di prevenzione si concentra sull’impedire l’insorgere dei fattori di rischio per il suicidio.

Questo può includere la diffusione di informazioni più ampie sulla salute mentale (importante trattare l’argomento anche ai ragazzi nella scuola), la riduzione del pregiudizio nei confronti delle patologie mentali e delle figure professionali coinvolte nella salute mentale. Sensibilizzare i medici di base alla problematica del suicidio è altrettanto importante, dato che spesso i pazienti si rivolgono a loro per chiedere aiuto.

La seconda modalità di intervento è rivolta a coloro che sono già a rischio e si sono rivolti a professionisti della salute mentale o a centri di crisi. In questo caso, una diagnosi accurata è essenziale per stabilire un trattamento psicoterapico e, se necessario, farmacologico. Alcune patologie mentali, come la depressione, il disturbo bipolare e la schizofrenia, sono particolarmente correlate al rischio di suicidio. Il terapeuta adotterà un approccio specifico in base alla condizione del paziente.

È fondamentale identificare e fornire supporto anche a coloro che hanno già tentato il suicidio, poiché le statistiche mostrano che questi individui sono ad alto rischio di fare un altro tentativo. I tentativi di suicidio possono variare da quelli legati a un desiderio di morte genuino a quelli che comportano un comportamento autodistruttivo, ma non necessariamente la volontà di morire.

La prevenzione del comportamento suicidario è un processo continuo che richiede attenzione costante, poiché il rischio può variare e situazioni apparentemente stabili possono rapidamente cambiare. È quindi fondamentale adottare un approccio proattivo e multidimensionale che coinvolga professionisti, familiari e amici, tutti insieme per offrire sostegno e aiuto.

Quali sono le caratteristiche di un buon colloquio clinico?

1. Prestare attenzione all’anamnesi personale e familiare della persona con l’obiettivo di indagare nel modo più approfondito possibile su precedenti episodi di suicidi in famiglia, specialmente di familiari più stretti quali genitori, figli e fratelli, oltre che su precedenti tentativi di suicidio messi in atto da parte della persona stessa.

2. Ricercare attivamente le informazioni: è essenziale non ignorare o negare il rischio. La ricerca di informazioni andrebbe svolta con delicatezza ma al tempo stesso attivamente, con domande esplicite, poiché le persone tendono a non riferire questi aspetti della propria storia personale, quasi sempre per pregiudizio e vergogna, o anche per via della difficoltà di esprimere e affrontare un dolore.

Ecco un insieme di domande mirate a esplorare le intenzioni suicidarie, iniziando da considerazioni più ampie e procedendo gradualmente verso la comprensione approfondita del problema. Questo approccio permette di individuare eventuali pensieri suicidari e di valutarne la gravità e l’entità con maggiore precisione:

– Come si sente?
– Si sente giù di umore?
– Si è mai sentito così in precedenza?
– È successo qualcosa recentemente che l’ha turbata?
– Si è sentito oppresso da un grande peso in maniera insopportabile?
– Si sente in colpa per qualcosa? Anche per errori commessi in passato? Ci pensa spesso?
– C’è qualcosa che la preoccupa o la turba molto in questo periodo?
– La sua mente si sofferma in modo ripetitivo su preoccupazioni senza riuscire a trovare una via d’uscita?
– Le è capitato di pensare che la vita non ha senso o che non valga la pena di essere vissuta?
– Le capita di pensare che sarebbe meglio morire piuttosto che sopportare tutto questo?
– Ha mai desiderato di essere morto?
– Ha mai pensato seriamente al suicidio?
– Con che frequenza ha pensieri di questo tipo?
– Per quanto tempo ci ha pensato negli ultimi giorni? Che cosa l’ha trattenuta dal farlo? (identifica i fattori protettivi)
– Ha mai fatto qualcosa di concreto per realizzarlo? Che cosa l’ha trattenuta dal farlo? (aiuta a identificare il rischio effettivo di morte).
– Ha pensato a chi lasciare le cose che le sono più care?
– Ha espresso le sue volontà a qualcuno di cui si fida o le ha lasciate scritte?
– Ha mai pensato a come ciò influenzerebbe la vita dei suoi cari?

3. Andare oltre i sintomi fisici e ascoltare con empatia: l’ascolto empatico è uno dei fattori più importanti per ridurre il livello di disperazione. Va tenuto presente che un malessere psichico profondo può non essere immediatamente leggibile perché indossa la “maschera” dei sintomi fisici. In questi casi il lavoro di smascheramento è molto complesso e può avere tempi lunghi, richiedendo una predisposizione all’ascolto ed esperienza.

4. Somministrare eventualmente una scala per la valutazione del rischio di suicidio: può essere un’integrazione al colloquio clinico per quantificare lo stato di mancanza di speranza (“hopelessness”), di depressione e di intenzione suicidaria; oppure si possono utilizzare i vari punti della scala in forma discorsiva per completare l’indagine. La valutazione permette di individuare lo stato di rischio suicidario e, di conseguenza, le operazioni migliori per gestire il paziente.

Che cosa fare quando c’è un rischio di suicidio?

Se il rischio è basso (labile ideazione, assenza di pianificazione, assenza – o lieve presenza – di psicopatologia e abuso di sostanze) può bastare mettere in atto un ascolto empatico, dare supporto e lavorare sul tema della morte come soluzione.
È inoltre utile valutare le risorse a disposizione nell’ambiente vicino alla persona, in particolare la presenza di familiari, amici o altri di riferimento da coinvolgere nell’assistenza.

Se il rischio è medio (idea stabile, assenza di una chiara pianificazione, assenza – o lieve presenza – di psicopatologia e abuso di sostanze, situazione psicologica instabile o crisi) è consigliabile iniziare fin da subito un trattamento farmacologico, generalmente antidepressivo, accompagnato da un intervento psicoterapico.

È utile, soprattutto all’inizio del trattamento, che il terapeuta garantisca contatti frequenti e ravvicinati, anche eventualmente con la disponibilità di essere raggiunto telefonicamente. Se ciò non fosse possibile, è necessario esplicitarlo al paziente e indicargli fin da subito un altro terapeuta di riferimento. Infine è necessario prevedere colloqui con i familiari con i quali identificare strategie di supporto condivise e gestione del rischio, e inoltre rimuovere qualsiasi mezzo che possa essere utilizzato per compiere gesti autolesivi.

Se il rischio è elevato (ideazione fissa, pianificazione, psicopatologia o abuso di sostanze, situazione psicologica instabile, accesso a mezzi autolesivi, comportamenti a rischio e isolamento sociale) è necessaria l’ospedalizzazione volontaria o, in situazioni estreme, il ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) se viene rifiutato il trattamento.

Accogliere la sofferenza, dare spazio e disponibilità alla relazione, all’empatia e alla sintonia affettiva, sono gli ingredienti fondamentali per una buona pratica clinica, ma solo avere una corretta preparazione permette di riconoscere le persone a rischio e di avviarle al trattamento più utile.

Quali sono gli obblighi deontologici dello specialista?

Il Codice Deontologico dello Psicologo stabilisce il segreto professionale (art. 11), ovvero l’obbligo di non rivelare notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto  professionale, ma in caso di situazioni che prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi (art. 13) se lo psicologo dovesse valutare una minaccia come concretamente possibile, dovrà riferirlo alle autorità competenti.

La giurisprudenza italiana si è pronunciata più volte sulla responsabilità dello psichiatra in tema di colpa medica, rilevando condotte omissive, oppure la condotta colposa, imprudente o negligente ricostruendo il suo operato. Nel caso delle condotte omissive, è stato ribadito il principio che “… il sanitario che ha in cura un paziente infermo di mente rimane titolare dell’obbligo della protezione del bene della vita e dell’incolumità individuale del medesimo, per lo meno quando questi risulti pericoloso per sé, come quando sia ad alto rischio suicidario” (Cass. Pen. sent. n. 13241, 2005).

Pertanto, ha l’obbligo di mettere in atto le misure cautelari appropriate, personali e ambientali, al fine di proteggere il soggetto da condotte auto ed etero-lesive. Nel caso delle condotte colpose, la documentazione clinica ha il ruolo cruciale di fonte di dati per poter riesaminare tutti i passaggi tecnici: ciò significa che una cartella clinica ineccepibile nell’impianto e nelle annotazioni può costituire elemento di prova a favore, mentre una cartella clinica lacunosa, contraddittoria, che non consenta la ricostruzione della logica sequenziale dei provvedimenti adottati, può diventare elemento probatorio di accusa.