Le storie

Burnout, il rischio per chi lavora con pazienti psicotici

Il burnout è un rischio per chi lavora a stretto contatto con i malati psicotici: l’esperienza di una psicologa e le vie possibili vie d'uscita.

Tra i professionisti dell’aiuto, chi lavora a stretto contatto con i malati psicotici è particolarmente a rischio di burnout. L’esperienza di una psicologa e il giovamento trovato durante le supervisioni di équipe.

Chiara, la paziente, parla da un’ora intera. L’orologio è inchiodato, il tempo interminabile. Mi domanda angosciata: “Chi ha ucciso mio padre? Chi ha rubato la mia identità?” Un interrogativo disperato e delirante si sussegue all’altro. Il turno dura ancora due ore, sopravvivere sembra un’impresa. Vorrei solo che Chiara tacesse. Vorrei gridare perché smetta. Mi sento a disagio e in colpa per i miei pensieri. Ci sono altri colleghi nella stanza. Come è possibile che loro stiano bene? Perché non mi aiutano? Perché solo io sto così male?
Certo, Chiara sa bene come farmi sentire capace e importante quando mi dice, con tono complice, che è certa che io abbia una pasticceria in cui dare ristoro a chi passa, ma sa anche come farmi sentire inutile e totalmente inadeguata quando, magari pochi minuti dopo, mi fissa negli occhi e sentenzia: “Tu non capirai mai nulla! Non importa quanto studierai, non saprai mai nulla!”.

Il burnout
In tutte quelle situazioni in cui ci si confronta con una persona che manifesta uno stato di grave disperazione psichica si è portati spontaneamente a intervenire in soccorso dell’altro. Il sentimento di aiuto è alla base di tutte le relazioni di cura. Il processo psichico da cui deriva è l’identificazione: per empatia, ci identifichiamo nella situazione dell’altro, ne “sentiamo” l’incapacità, l’angoscia, l’impasse. È lo stesso meccanismo che consente alla madre di sentire l’angoscia del neonato e che la porta a intervenire in modo adeguato ai suoi bisogni.
Nel momento in cui le nostre risposte non sono all’altezza delle attese, tuttavia, le cose si complicano: le esigenze del nostro interlocutore possono diventare imperiose e tiranniche, la sua delusione intensa e la sua disperazione si trasferisce a noi. Non è molto diverso a ciò che accade a una mamma che ha di fronte un neonato disperato e affamato che non può soddisfare.
Se queste situazioni si ripetono, ne possono derivare disagi che finiscono per intaccare, oltre che la vita professionale, anche quella privata. È il fenomeno del “burnout”, uno stato di grave esaurimento emotivo che fa sentire scoppiati, “bruciati”.

La vera causa: l’assenza di confronto
A provocare il burnout, però, non sono tanto i sentimenti di disagio e di sofferenza, a cui i professionisti  delle relazioni d’aiuto (medici, psicologi, educatori) sono inevitabilmente esposti, bensì l’impossibilità di elaborarli. Questo avviene anche perché mancano, nei luoghi di lavoro, spazi e momenti in cui esprimere ed elaborare le proprie emozioni. Purtroppo si tende spesso a censurare l’emotività per aderire a un modello di professionalità neutra e impersonale, che si concentra sui compiti istituzionali e sugli obiettivi individuali. Riconoscere in sé sentimenti violenti di rabbia, di collera, di esasperazione mette in discussione l’autostima; inoltre ogni eventuale reazione emotiva avviene davanti ai colleghi e questo genera un ulteriore ventaglio di emozioni.
Ma emozioni e sentimenti soppressi o mal gestiti che fine fanno? Non riconoscerli e non nominarli può farci credere di tenerli sotto controllo, invece porta spesso a manifestarli in forme non corrette e poco professionali: è facile infatti diventare indifferenti o addirittura cinici e ostili proprio nei confronti delle persone di cui ci si dovrebbe prendere cura. Sarebbe invece molto più utile diventare consapevoli di questi sentimenti e imparare a utilizzarli per migliorare la propria professionalità.

Il paziente psicotico
L’esperienza del burnout è particolarmente intensa e complessa quando si lavora con pazienti psicotici. Momenti di grande frustrazione ed esasperazione fanno parte dell’esperienza quotidiana.
Secondo lo psicoanalista Giovanni Carlo Zapparoli, il paziente psicotico vive ogni bisogno in modo dirompente e angosciante, come fosse un neonato terrorizzato: per questo motivo la sua priorità diventa quella di non percepire bisogni o limitazioni di nessun tipo. È complesso per questi pazienti accettare ogni genere di separazione (dei sessi, delle generazioni, degli esseri…) dal momento che ogni separazione implica un limite vissuto come catastrofico. Per questo il pensiero psicotico è spesso confuso: confusione delle idee, dei desideri, delle persone. Ciò che viene attaccato (o meglio: ciò da cui gli psicotici si proteggono attaccandolo) è dunque il senso. Da qui il vissuto doloroso e faticoso per chi vive accanto a queste persone: ci si trova in un costante disequilibrio, in una incertezza profonda, in uno stato di grande vaghezza e confusione.

La supervisione in équipe
Come nell’esempio riportato all’inizio, chi lavora con i pazienti psicotici è esposto in modo continuo a richieste fagocitanti e a intensi e rapidi avvicinamenti seguiti da ritiri repentini e apparentemente inspiegabili. Ecco perché è fondamentale programmare momenti di elaborazione e confronto, come le équipe di supervisione, che permettano di esprimere e trasformare le emozioni. Esistono protocolli e procedure specifiche, per esempio i gruppi Balint, oppure tecniche di matrice gestaltica, che permettono, attraverso un lavoro di rielaborazione, di decomprimere e sdrammatizzare emozioni che altrimenti risulterebbero troppo disturbanti.  
Per esempio, la paziente che mi urla contro che sono un’incapace mi fa provare, in quel momento, un grande senso di scoraggiamento. Durante la supervisione riflettiamo: come mai lo scoraggiamento? Quali sono le mie aspettative sul mio lavoro? Qual è il senso dell’urlo? Che cosa pensano i miei colleghi? Succede anche ad altri? E come reagiscono gli altri? C’è chi si arrabbia, chi si sente disperato, chi si isola… Quali sono le parti della mia personalità che sto mettendo in gioco? Come posso sostenerle, attraverso quali strategie? Qual è stato il percorso di quella paziente? Forse quella paziente prima di adesso non si era mai permessa di esprimere la sua rabbia e il suo dissenso? Forse si è sentita libera di manifestare la sua aggressività in una relazione che sente come sicura?
In questo modo un qualsiasi avvenimento che accada durante il lavoro viene riletto alla luce di prospettive più ampie, inserendolo, per esempio, nel percorso di crescita del paziente o nel suo progetto educativo, oppure nell’evoluzione del servizio, o ancora nella crescita professionale degli operatori coinvolti. Questi momenti di riflessione più ampi e condivisi permettono di dare un significato anche educativo a ciò che accade, diminuendo la carica emotiva e l’impatto disregolato sulla vita professionale.