Psichiatria

Il destino della “follia” dall’antichità a oggi

L’emarginazione del diverso nel passato e nel mondo attuale

Il destino della “follia” dall’antichità a oggi

Nell’antichità chi soffriva di gravi disturbi mentali aveva due sorti: essere abbandonato all’esilio oppure essere rinchiuso da qualche parte e lasciato a morire. Un destino raccontato dalle leggendarie “navi dei folli”, antenate dei manicomi, che richiamano atteggiamenti purtroppo ancora attuali: la paura del diverso e la tendenza a emarginare chi è scomodo o incomprensibile

In Italia, lungo la costiera Amalfitana, c’è un piccolo paesino arroccato chiamato Furore. Non ci sono strade che conducono alla piccola caletta dal mare color smeraldo, solo in seguito sono stati costruiti degli scalini di pietra che oggi lo collegano alla strada principale.
Gli abitanti del luogo dicono che l’origine del nome derivi dal passato: su quella spiaggetta erano costretti a sbarcare i “pazzi”, i disperati e i delinquenti.
In quel luogo, quindi, chi era considerato elemento di disturbo e di contagio veniva abbandonato al proprio destino. Un destino fatto di morte, stenti e sofferenza, dove l’acqua del mare rappresentava simbolicamente la forza delle emozioni e degli istinti, che ha il potere di condurre alla deriva e distruggere.
Nel nostro passato il “matto” era allontanato dalla società e Furore, in quel tempo, rappresentava l’anticamera dell’inferno, la culla della follia.

Le navi dei folli

Come racconta Michel Foucault nella Storia della follia nell’età classica, intorno al Rinascimento si diffonde la credenza della così chiamata “nave dei folli”, un’imbarcazione in cui venivano stipate le persone con gravi disturbi psichici e che vagava per i fiumi e i mari della vecchia Europa. Prima del manicomio, struttura fissa e organizzata in cui segregare i malati mentali, la “Stultifera navis” (la più celebre rappresentazione è quella di Hieronymus Bosch) era l’espressione della volontà di allontanare e cancellare la follia dalla comunità, di toglierle ogni diritto di cittadinanza. Dalla letteratura scopriamo anche che a essere condannati all’alienazione e all’esclusione sociale non erano solo i “folli” o i “dementi”, ma anche coloro che ricercavano verità alternative alla morale del tempo e mettevano in discussione le istituzioni sociali e religiose.

Il Matto errante

L’esistenza delle “navi dei folli” non è storicamente documentata, mentre è certo che le persone con gravi problemi psichici venissero il più delle volte escluse dalla comunità. Nell’iconografia antica (come questa del mazzo Visconti-Sforza illustrato da Bonifacio Bembo nel XV secolo), il “Matto” è vestito di stracci e vaga tra l’indifferenza della gente; non ha dimora perché da sempre è respinto dalla società. Egli si abbandona alla propria esistenza nell’accettazione del suo triste destino. In questa rinuncia obbligata, la sua vita è intrisa di sofferenza. Tuttavia porta con sé un fagotto, una piccola borsa, che raffigura i suoi segreti, le comprensioni più profonde circa la verità ultima dell’anima.
Anche nelle antiche raffigurazioni, quindi, si trasmetteva l’idea che il “matto” fosse colui che ha avuto accesso al mondo dell’irrazionale e dell’inconscio, ma ha pagato caro il prezzo dell’ottenimento di questa conoscenza. Ormai la sua mente è rotta, come spaccata in due. Non può più stare nella società, non ne accetta i limiti, le regole e le convenzioni. La sua vita è fatta di rifiuti, abbandoni e rinunce.
Nei racconti di persone che hanno vissuto esperienze psicotiche, infatti, il delirio è inizialmente descritto come un’esperienza incredibilmente potente, a tratti anche “affascinante”, che travolge completamente la personalità del soggetto, in uno stato di vuoto e impotenza.

Psichiatria e Antipsichiatria

Nella storia della Psichiatria e degli ospedali, il “contenimento” e la violenza usati nella gestione del paziente psichiatrico sono ancora nell’immaginario collettivo. Fu Karl Jaspers, psichiatra tedesco, a dare inizio a un nuovo modo di interpretare la follia. Secondo questa corrente di pensiero, il disturbo mentale è dotato di un senso legittimo e il delirio è una manifestazione del suo vissuto. In passato, la relazione del medico con il malato era improntata a una ricerca ossessiva di cause e sintomi e non si poteva neanche parlare di ‘relazione’ fra i due, ma solo di soggetti osservati dall’occhio clinico del curante.
In opposizione, senza negare l’esistenza di stati di disagio, intorno agli anni ‘70 si è sviluppato un movimento di pensiero chiamato Antipsichiatria. Questa corrente sosteneva che nella maggior parte dei casi le psicosi non sono malattie organiche, quanto piuttosto condizionamenti psicologici e ambientali, dove anche la società gioca la sua parte di responsabilità. La corrente dell’antipsichiatria, insieme all’azione politica e sociale di un carismatico psichiatra veneziano, Franco Basaglia, determinarono nel 1978 in Italia (in anticipo sugli altri Paesi) l’approvazione della legge 180, che aboliva definitivamente i manicomi.

La paura del diverso

Tuttavia, nonostante la legge Basaglia, ancora oggi la follia, la disabilità, il diverso e lo straniero sembrano fare paura alla società, come dimostra anche l’atteggiamento nei confronti dei migranti che giungono nel nostro Paese. A volte non sembra che le cose siano poi così cambiate rispetto ai tempi di Furore e delle “navi dei folli”: gli antichi moti di espulsione e rifiuto si muovono ancora nelle profondità della mente di individui, società e gruppi politici.

Molti pazienti portano in terapia un senso di inadeguatezza, solitudine e abbandono difficili da affrontare, e con questi la paura di essere emarginati, esclusi da ogni interazione sociale come si faceva con i folli nell’antichità. La responsabilità etica e umana è il punto di partenza che permette al terapeuta di farsi carico con consapevolezza e impegno della complessità e del dolore che, ogni giorno, il paziente porta con sé nel percorso terapeutico. Anche nei casi più gravi.