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Cos’è l’anaffettività e come condiziona le relazioni di una persona

Che caratteristiche ha una persona anaffettiva, quando diventa un problema e cosa si può fare.

Cos’è l’anaffettività e come condiziona le relazioni di una persona

Cosa significa essere anaffettivi? In questo approfondimento scopriamo le radici dell’anaffettività e le sue ripercussioni sulle relazioni interpersonali.

La parola anaffettività (an– privativo, affettività dal latino adfectus a sua volta composto dal prefisso ad-, verso, e dal verbo facere, fare), si riferisce alla difficoltà a provare ed esprimere sentimenti nei confronti di altri.

L’anaffettività non è di per sé una caratteristica che richiede attenzione clinica. Non indica cioè, in assenza di altri fenomeni che facciano da corollario, una patologia. Come per altre caratteristiche che contraddistinguono il funzionamento umano, non è semplicemente presente o assente, ma può svilupparsi ed esprimersi in modo più o meno intenso in ciascuno di noi nel corso della vita.

Cosa influenza lo sviluppo di uno stile relazionale più o meno “affettivo”

La maggiore o minore propensione a provare ed esprimere sentimenti rivolti a qualcuno ha le sue radici nell’interazione tra:

  • fattori di predisposizione biologica;
  • qualità e tipologia degli scambi relazionali precoci con le principali figure di accudimento;
  • esperienze relazionali significative successive.

Chi si prende cura di noi ci garantisce protezione, cibo, calore, contatto fisico, scambi emotivi. Garantisce la nostra sopravvivenza quando non possiamo farlo da soli e, in genere, ci aiuta a dare un significato agli stati che il nostro organismo sperimenta. Riconosce sufficientemente bene quando abbiamo fame, sete, sonno. Sa quando siamo spaventati o proviamo dolore, e attraverso le sue espressioni corporee e i suoi comportamenti ci dà indicazioni su cosa ci sta capitando. 

Nel prendersi cura di noi, la figura di accudimento ci comunica il suo interesse per i nostri bisogni e la possibilità di capire di quali si tratta.

Un bambino che mediamente vede riconosciuti i propri bisogni e trova una risposta che li soddisfi, inizierà a sviluppare una rappresentazione di sé come di una persona degna di amore e interesse da parte di un mondo, separato da lui, che è capace di capirlo e fornire ciò di cui necessita.

In un mondo con queste caratteristiche si sentirà sufficientemente al sicuro nell’esprimere i propri stati interni. Se penso che i miei sentimenti hanno un valore e che agli altri interessano, comunicarli diventa il modo migliore per stabilire legami significativi con le persone.

Questo punto di vista sul mondo, e le capacità su cui poggia, possono evolvere e cambiare nel corso della vita di una persona. Due fattori sono particolarmente importanti perché questo avvenga:

  1. la ripetizione di nuove esperienze che possano fornire informazioni differenti da quelle che si sono apprese in periodi precedenti;
  2. la disponibilità della persona a considerare possibili altre versioni della realtà (quella che tecnicamente viene definita flessibilità cognitivo-emotiva).

Cosa comporta l'anaffettività nelle relazioni

Quando uno stile relazionale si sbilancia verso l’anaffettività

Immaginiamo ora la storia di qualcuno che fin da piccolo si relaziona con persone che hanno una capacità ridotta di accorgersi, riconoscere, prestare attenzione a ciò che gli succede. Anche quando intervengono, i suoi caregiver si comportano in modo poco congruo con i suoi bisogni o tendono a pensare principalmente ai propri. Un esempio di un’interazione di questo tipo è: hai fame ma cerco di metterti a letto, cerchi calore fisico ma ti do distrattamente da mangiare. Questi fraintendimenti non avvengono con intenzione malevola: probabilmente anche i caregiver, a loro volta, hanno potuto allenare poco queste capacità nel corso della loro vita. Immaginiamo che quel bambino sistematicamente riceva questi tipi di risposte dall’ambiente. E che magari abbia ereditato una predisposizione biologica a cercare poco il contatto con gli altri (ad esempio a causa di un tratto temperamentale che predisponga a essere poco esplorativi).

È facile intuire la possibilità che questa persona, nel tempo, faccia fatica a capire quali stati interni sta vivendo, quali emozioni sta provando. Inoltre, è probabile che si aspetti dagli altri poco interesse e scarsa comprensione nei suoi confronti. Se queste sono le sue aspettative, per quale motivo dovrebbe sforzarsi di capire cosa sta sentendo e comunicarlo all’esterno? Rischierebbe solo di vivere nuovamente uno stato frustrante o doloroso. 

È facile che si instauri una sorta di circolo vizioso, in cui meno mi espongo e più confermo le mie buone ragioni a non farlo.

Quando l’anaffettività diventa un problema e come si può affrontare

In genere uno stile anaffettivo diventa un problema quando assume le caratteristiche di un ostacolo all’appagamento di bisogni relazionali cui la persona dà valore e importanza. Talvolta è la persona anaffettiva stessa che ne coglie i limiti, talvolta è il partner che esplicita la presenza di qualcosa che non va e che può minare la tenuta del legame.

La psicoterapia può aiutare una persona a scoprire e dare valore al suo mondo interno, rendendolo più facilmente comunicabile. Ciò è particolarmente vero per le terapie più orientate all’attenzione sulla metacognizione, la mentalizzazione e le dinamiche relazionali (approcci psicodinamici relazionali, cognitivo costruttivisti o metacognitivo-interpersonali).

L’obiettivo di un lavoro psicoterapeutico di questo tipo non è mai uno stravolgimento del modo di funzionare di una persona. Si tratta, piuttosto, di un delicato e progressivo accompagnamento a esplorare scenari alternativi che non si sono potuti esplorare in altri modi. 

Il livello di anaffettività di una persona non è immutabile, e con la psicoterapia si cerca di avvicinarsi al minimo cambiamento necessario perché quella caratteristica non costituisca più, per quella persona, un problema.

Per concludere, credo sia utile ricordare che quella modalità anaffettiva ha richiesto molti anni per costruirsi. Chi sceglie di iniziare un percorso di psicoterapia per lavorarci deve mettere in conto una tempistica che difficilmente può ridursi a pochi mesi. La psicoterapia è un lavoro che richiede fatica e impegno. Tuttavia, è un tipo di lavoro che apre la possibilità di guardare se stessi, il mondo e gli altri con occhi diversi.