Perché le persone rifiutano il vaccino anti-Covid

Intervista all'autrice del libro "Esitanti - Quello che la pandemia ci ha insegnato sulla psicologia della prevenzione"

Perché le persone rifiutano il vaccino anti-Covid
Perché le persone rifiutano il vaccino anti-Covid

Risposte rassicuranti su argomenti complessi che non riusciamo a capire.
Il Santagostino ha intervistato Guendalina Graffigna, autrice del libro “Esitanti” e di ricerche empiriche sull’avversione ai vaccini.

Durante la fase iniziale della pandemia molte persone protestavano per il fatto di non avere accesso a dispositivi di protezione individuale, come mascherine chirurgiche e gel alcolico. Quando le forniture sono arrivate per tutti sono nati i primi movimenti no-mask. Abbiamo sperato poi in una soluzione per uscire dalla pandemia evocando un vaccino, e quando il vaccino è arrivato ecco i no-vax e no-green pass. Qual è il problema in questo caso, come mai molte persone fanno fatica ad accettare l’aiuto e a riporre la fiducia nella scienza?

«Quello della fiducia è un tema cruciale. Se prendiamo il tema del Green Pass, da un recentissimo studio del nostro Centro di ricerca – l’EngageMinds HUB dell’Università Cattolica – emerge che il 56 per cento dei cittadini italiani lo ritiene una misura efficace per ridurre i contagi. Questa percentuale crolla però al 30 per cento tra coloro che dichiarano di aver poca fiducia nella ricerca scientifica. Ma è un fenomeno che abbraccia aspetti più sistemici se consideriamo che questa frazione scende al 37 per cento tra chi è sfiduciato rispetto all’apparato sanitario e al 46 per cento tra chi crede poco nelle istituzioni del nostro Paese.

I fattori alla base di questo atteggiamento sono duplici: da una parte qualsiasi misura preventiva per definizione ci impone una rinuncia allo status quo, a condotte a cui ci siamo abituati e che – in qualche modo – ci sono fonte di piacere. Rinunciare ad un comportamento “comodo” non piace a nessuno e tanto meno recepire imposizioni in questa direzione.

Dall’altra parte, il problema della scarsa fiducia nella scienza e nelle professioni sanitarie: un problema annoso che la pandemia non ha fatto altro che acuire. La società appare spesso lontana dalla logica scientifica, poco avvezza a comprendere i processi che stanno alla base delle scoperte scientifiche, poco tollerante l’inevitabile incertezza con cui la scienza costituzionalmente si confronta. Dall’altra parte però la scienza è stata da sempre molto elitaria, chiusa al dialogo con il cittadino, poco incline a rendere realmente partecipi le persone nel processo di scoperta. Questa scollatura tra logiche dei cittadini e logiche della scienza è alla base della preoccupante crisi di fiducia a cui assistiamo, e che mina la possibilità che le persone accettino di buon grado le richieste preventive.»

Cosa fa più paura di un vaccino? Come mai molte persone finiscono per credere a un enorme e improbabile complotto?

«Per affrontare la dimensione individuale e psicologica dell’esitanza vaccinale dobbiamo partire dalla disamina delle caratteristiche simboliche della vaccinazione stessa. Sul piano dell’immaginario, vaccinarsi significa inoculare un agente patogeno (che quindi è un corpo estraneo, invisibile, spaventoso) in un organismo apparentemente sano, che non presenta (al momento) i segni della malattia per la quale il vaccino promette di proteggere. D’altra parte, è fattore comune alle diverse malattie infettive (e ai fenomeni micro-biologici) che esse sul piano psicologico risultino particolarmente affascinanti e spaventose: l’invisibilità ad occhio nudo di patogeni a livello micro-biologico si presta, nel pensiero comune, a distorsioni e fantasie tutt’altro che rassicuranti. In questo scenario, il concetto di “vaccinazione” aggiunge elementi di complessità e attiva un processo di decodifica emotivo-simbolica tutt’altro che neutro.

Un virus costituisce per la nostra mente una minaccia invisibile e paurosa, che attiva uno stato di allerta e di ipervigilanza circa gli elementi del contesto circostante. La proposta di inoculare nell’organismo un agente che, seppur micro-biologicamente manipolato e controllato, presenti elementi di patogenicità risulta psicologicamente spaventosa. Questo attiva inevitabilmente fantasie negative e paure profonde, che mettono a dura prova il pensiero logico-razionale degli individui. Aggiungiamo poi che viviamo da oltre un anno e mezzo in un clima di grande incertezza, immersi in una situazione complessa e della quale non abbiamo il pieno controllo. Psicologicamente siamo portati a cercare punti fermi ai quali, in qualche modo, ancorarci.

Le teorie complottiste offrono facili certezze, che però non sono basate sulla realtà.

C’è una situazione drammatica che non capiamo? È colpa di qualcuno, di qualcosa che congiura contro di noi? E così, insieme a indentificare un capro espiatorio ci forniamo una spiegazione che – non senza qualche aspetto paradossale – ci rassicura. Ecco perché le teorie complottiste sono particolarmente seducenti: di fatto danno risposte semplici, e dunque “credibili”, a domande complesse.»

Tra chi crede al complotto delle cause farmaceutiche e non si fida dei vaccini troviamo anche medici e biologi, persone intelligenti e acculturate. Il rifiuto del vaccino non sembra quindi (solo) un tema di scarsa cultura. C’è qualcosa di più profondo. Di cosa si tratta secondo lei?

«Per quanto riguarda i complotti, in realtà i nostri dati ci dicono che un effetto “cultura” c’è: la tendenza, in generale, a credere a congiure delle case farmaceutiche è più elevata tra le persone meno scolarizzate (47% tra chi ha licenza media o inferiore) mentre si abbassa tra i laureati (31%). Dopodiché, se si abbandona il complottismo e si va su misure più specifiche, il gap legato al titolo di studio persiste ma si abbassa. Dunque, un effetto “cultura” esiste, ma è basso, e riesce solo a scalfire quelle ragioni psicologiche di cui abbiamo parlato prima. 

Detto questo, le dimensioni emotive e psicologiche che stanno alla base delle teorie complottiste sono più complesse. Ad esempio sul piano dei meccanismi di pensiero, è stato dimostrato come le persone più “cervellotiche”, che tendono a porsi più domande e a desiderare di tenere tutto sotto controllo (tutti atteggiamenti più che legittimi e segno di intelligenza e desiderio di approfondimento) tollerano meno una situazione di incertezza… e quindi di fronte a un quadro scientifico in continua evoluzione tendono ad essere più scettici e più animati da pensieri persecutori. Questo può spiegare la presenza di atteggiamenti contrari ai vaccini anche tra chi è più acculturato. Infine molte posizioni contro i vaccini derivano anche da convinzioni ideologiche e politiche, che quindi vanno al di là delle considerazioni medico-scientifiche sull’efficacia e la sicurezza del dispositivo.»

Qual è il ruolo degli enti di informazione pubblica e privata? Abbiamo visto diverse campagne di sensibilizzazione, ma sembrano esserci ancora notevoli sacche di resistenza alla vaccinazione. Cosa si potrebbe fare di diverso a livello comunicativo?

«La comunicazione è un fattore decisivo in una pandemia. Sin dall’inizio di questa crisi, oltre al lavoro a volte eroico degli operatori sanitari e all’impegno nella ricerca scientifica per formulare vaccini efficaci, abbiamo capito che i nostri comportamenti quotidiani sono stati – e sono tuttora – il caposaldo della nostra linea di difesa dall’infezione da Covid-19. E i comportamenti, da indossare la mascherina, al distanziamento sociale, all’uso del Green Pass, alla stessa vaccinazione, vanno accompagnati, orientati, e, quando positivi, valorizzati.
Per farlo lo strumento principe è proprio una buona comunicazione. Spesso, non serve assumere toni punitivi o, peggio, sprezzanti verso i cittadini. Ciò che va comunicato è un messaggio positivo, che vada ad evidenziare i comportamenti virtuosi, mostrando come la partecipazione a questa operazione collettiva di prevenzione dai contagi abbia risvolti concreti sulla salute di tutti. Si tratta, insomma, di favorire un coinvolgimento – tecnicamente, engagement – dei cittadini, per renderli protagonisti attivi di questa lotta comune al Covid-19. La comunicazione in tema di vaccinazioni, dunque, dovrebbe ascoltare di più, porsi in situazione di empatia e comprensione oltre che enunciare dati scientifici a favore della vaccinazione. Inoltre bisognerebbe puntare ad una educazione sanitaria complessiva, capace di far cambiare l’atteggiamento generale con cui le persone si pongono nei confronti della prevenzione e del sistema sanitario nel suo complesso.»