Come si racconta la guerra ai bambini

Una piccola guida per genitori preoccupati

Come si racconta la guerra ai bambini

Alcune considerazioni su come parlare di questo tema spinoso con i bambini

Tanti genitori si stanno domandando cosa sia giusto condividere con i bambini e cosa no o addirittura se sia corretto farlo.

Non è inusuale che si tenda a tenere lontane le cose che spaventano, specialmente se si tratta dei più piccoli.  Può essere naturale pensare che lasciando i bambini all’oscuro di ciò che accade li proteggeremo dalla paura. In realtà però avviene esattamente il contrario: è proprio il non conoscere, non sapere, che genera quell’ansia così temuta ed evitata.

Un bambino infatti può pensare che i genitori gli tengano nascoste le cose o che non lo ritengano in grado di capire. La percezione è che il mondo adulto non nutra fiducia in lui e nella sua capacità di ricevere e gestire le informazioni. E quando un bambino percepisce questo meccanismo,  il rischio è quello di instillare in lui il dubbio sul proprio valore, intaccandone l’autostima. “Se tu adulto non mi parli, non mi dici come stanno veramente le cose, io a chi chiedo? Di chi mi posso fidare?”.

Il genitore, l’insegnante, l’educatore, il nonno dovrebbero rappresentare un contenitore di senso per i bambini.

Va sempre ricordato, inoltre, che non tutte le domande finiscono col punto interrogativo.

Bisogna prestare attenzione ai comportamenti dei figli, soprattutto se piccoli. Incubi e risvegli notturni, manifestazioni di ansia e disregolazione emotiva, nervosismo, irritabilità, inappetenza o abbuffate sono tutte richieste implicite di spiegazioni, manifestazioni di un disagio interno non esprimibile a parole.

Dall’altra parte, se un bambino non manifesta nessun interesse nel conoscere, un adulto non dovrebbe solleticarne la curiosità, perché quel bambino, in quel momento, ha probabilmente bisogno di non sapere. Questo atteggiamento può rappresentare una difesa, il bambino può non essere pronto o può essere spaventato… come adulti dobbiamo rispettare i suoi tempi.

Fidarsi

Stimare le scelte del figlio significa fidarsi di lui. Infatti è proprio il bambino che ci guida se siamo disorientati; essere genitori è uno scambio continuo: non è lui il titolare della sua crescita, ma è lui che ci aiuta a calibrare i nostri interventi. In questo senso, come adulti e genitori, quando ci chiediamo come spiegare la guerra dobbiamo accettare il fatto che un bambino non voglia parlarne, così come dobbiamo ascoltare e dialogare con quei bambini che invece vogliono affrontare l’argomento, e per fare questo dobbiamo sostenerlo scegliendo le migliori fonti di informazione.

Si tratta di una generazione che ha accesso alle informazioni con estrema naturalezza e facilità attraverso la tecnologia. Perché il figlio attraversi un percorso di crescita armonioso e non evolva in una bolla, l’adulto responsabile ha il compito fondamentale di accompagnarlo nel selezionare le notizie, aiutandolo a sviluppare spirito critico, ad esempio leggendo una stessa notizia da due fonti differenti e discutendone insieme.

Cosa dire ai figli della guerra

Per rispondere alla comune domanda: “Che cosa devo dire a mio figlio, cosa può sapere, è giusto che sappia sulla guerra?”, occorre fare una breve premessa e differenziazione anagrafica.

Se un bambino di 3, 4 o 5 anni chiede informazioni perché ne ha sentito parlare all’asilo, si cerca di utilizzare un linguaggio idoneo all’età che solitamente è accompagnato da immagini, metafore e rappresentazioni che possano essere alla sua portata. Nella maggior parte dei casi, si accontentano senza andare oltre.

I bambini che frequentano la scuola primaria sono soliti parlare anche di attualità, buttando lì frasi captate a casa o sentite in tv.

Fino agli 8 anni circa – terza elementare – sono dotati di competenze concrete, non hanno ancora sviluppato la capacità di astrarre le informazioni che ricevono, in poche parole,  non sono in grado di filtrare; appare quindi sconveniente che accedano a immagini di guerra o vedano i telegiornali, perché non sono ancora capaci di utilizzare quelle informazioni in modo utile.

Dagli 8/9 anni in avanti, invece, si può essere anche un poco più diretti.

In generale, ai bambini si può (e in alcuni casi si deve) parlare di morte, guerra, ansia, pandemia. Questi sono temi su cui è possibile dialogare, non si tratta (solo) di attualità, ma di aiutarli e accompagnarli a stare nel mondo.

Farsi trovare pronti se fanno domande con parole proporzionate a quell’età e al bambino con cui si ha a che fare con un approccio di autenticità è il compito dell’adulto responsabile.

L’ansia degli adulti

Se dovesse emergere la nostra ansia o un’emotività incontrollabile in questi momenti, non c’è da preoccuparsi. L’agitazione del bambino è perfettamente comprensibile e legittima, e di certo non è contagiosa. Se tolleriamo l’ansia del bambino, il messaggio che quest’ultimo riceverà è: “Ciò che tu senti è legittimo, non è sbagliato e può essere compreso ed elaborato”.

Infine, è bello raccontare anche altro, accanto alla guerra, così che il bambino si senta protagonista di azioni concrete che gli diano l’idea che se lui aiuta e pensa a qualcuno, magari qualcuno lo fa o lo farà per lui. Coinvolgerli quindi in una spesa mirata da donare, nella selezioni di abiti caldi, di giochi o accessori per i bimbi che non hanno più nulla, raccontare i corridoi umanitari sono tutte informazioni legate a questo incomprensibile momento che creano reciprocità, sintonizzazione e senso di appartenenza: “Io sono dalla parte di chi aiuta”.

“La guerra verrà anche qui?”

Questa è “La Domanda”. Come affrontarla senza disintegrarsi emotivamente?

Dicendo la verità: “Non lo so”.

I grandi sono sufficientemente competenti e attrezzati per comprendere profondamente la nostra confessione a cuore aperto; i piccoli rischiano di essere gettati nell’angoscia. Allora spieghiamo loro le nostre uniche poche certezze: la guerra non è fatta contro i bambini anche se si colpiscono anche loro. 

Serve grazia, delicatezza, responsabilità, ma soprattutto autenticità. l’iper-protezione non aiuta. Non si può censurare tutto ciò che facciamo fatica ad affrontare.