Artemisia Gentileschi, pittrice seicentesca, è un esempio di come l’arte possa aiutare ad affrontare e superare anche traumi molto gravi, quali l’abuso sessuale, l’umiliazione pubblica, la tortura, le violenze perpetrate in ambito familiare.
Nel 1612, a Roma scoppia uno scandalo nel mondo degli artisti. Orazio Gentileschi, allievo di Caravaggio e padre di Artemisia, denuncia il collega Agostino Tassi per aver abusato della propria figlia e per avergli rubato un quadro.
Così come viene esposto dagli Atti di un processo di stupro (Ed. Abscondita, 2004), ai tempi della violenza, Artemisia ha appena 17 anni, anche lei è un’abile pittrice, allieva dei due pittori. Orazio e Agostino, infatti, lavoravano spesso assieme per vari e illustri committenti e per queste ragioni, il primo aveva chiesto al secondo di insegnare alla figlia le regole della prospettiva. L’anno seguente però lo aveva denunciato, con tanto di di supplica papale.
Che cosa era successo davvero? Possibile che non sapesse nulla di quanto accadeva tra il collega e la figlia? E che cosa provava Artemisia nei confronti di Agostino? Dagli atti del processo, la complessità di questa relazione non è chiara: Artemisia ed Agostino si accusano a vicenda. Ciò che emerge con sicurezza è che la pittrice, giovane e inesperta, sostiene di essere stata ingannata con falsi raggiri e confuse promesse e che Agostino si sarebbe approfittato di lei e della sua ingenuità (per esempio promettendole di sposarla, pur essendo già sposato).
Padre padrone
Un’altra cosa che emerge dagli atti del processo, che coinvolge molti altri personaggi, è il fatto che Orazio, più che un padre che protegge la figlia, assomiglia a un padrone: non esita infatti a esporre l’intimità di Artemisia ai giudici, a sottoporla a pubblici controlli ginecologici e alla tortura della sibille, uno strumento in cui le le dita del condannato erano stritolate con funicelle, rischiando così di rovinare per sempre anche l’abilità nella pittura della propria figlia.
Il processo si conclude con la completa rovina di Agostino Tassi, bandito da Roma e determina l’ascesa pittorica di Artemisia, che rompe completamente i rapporti con il padre e trae dalla vicenda una spinta creativa completamente nuova. È in questo modo, grazie alla propria forza interiore e all’arte, che Artemisia Gentileschi raggiungerà la completa emancipazione dal padre e un suo personale stile pittorico ormai indipendente.
La reazione
Artemisia reagisce ai traumi degli abusi perpetrati con le uniche armi che aveva a disposizione: l’intelligenza, l’abilità pittorica e la tela. Diventa così una donna libera a livello sociale ed economico: riceve infatti numerose committenze e comincia a dipingere temi che narrano storie di donne violate e vendicative che uccidono crudelmente nemici e amanti. Due opere sono gli emblemi della vicenda del processo: Susanna e i vecchioni (1610), in cui una giovane viene molestata da due uomini ( non a caso tema ricorrente nella scelta creativa della pittrice) e soprattutto Giuditta che decapita Oloferne (1620 circa), in cui il volto della protagonista è quello della pittrice stessa.
Nelle opere l’artista manifesta tutto il suo sdegno e disprezzo, con l’obiettivo di guarire le proprie ferite attraverso la sublimazione (trasformando cioè le proprie emozioni negative in arte). Nei dipinti si dosano, in equa miscela, pulsioni erotiche e aggressive, che danno un’intensa forza espressiva e testimoniano i vissuti di una vicenda fatta di inganno, attrazione, violenza e vergogna.
Riscatto e perdono
Nella storia di questa pittrice non si può solo parlare di resilienza e di potenza dei meccanismi difensivi, ma anche di un vero e proprio riscatto emotivo e morale che anche oggi a molte donne è negato. La pittrice, dopo aver capito di non poter contare né sulla giustizia né sulla famiglia, ma solo su se stessa, reagisce sfruttando le proprie capacità intellettuali e artistiche.
Ad ogni modo, Artemisia sa che la vendetta non è una forma di riscatto ma solo un modo aggressivo di reagire alle violenze. Così, molti anni più tardi, dopo decenni di silenzio tra padre e figlia, viene chiamata a Londra da Carlo I d’Inghilterra, nel 1638, per dipingere assieme al padre Orazio un complesso di nove tele. Quest’opera, il Trionfo della pace e delle arti, segna il suo perdono e una nuova collaborazione, non più come aiutante del padre ma come professionista a pieno diritto. Un anno dopo il padre ormai anziano muore e Artemisia rientra a Napoli come pittrice di fama internazionale.
(13 Febbraio 2019)