La follia è una parola dalla storia estremamente lunga e articolata. Dalle prime definizioni, in ambiente greco, duemila e cinquecento anni fa, fino alla definizione che ne ha dato la fenomenologia, nell’800, e in tempi più recenti la ricerca strumentale per mezzo delle tecniche di neuroimaging.
Cosa si intende con la parola follia? In che modo può essere tradotta e accolta clinicamente? E come una persona considerata folle, a rischio di stigma, può essere invece accolta e debitamente curata? Risponde a queste domande la dott.ssa Miriam Baraccani, psicoterapeuta a indirizzo analitico del Santagostino.
Che cos’è la follia per la psicologia?
Dal punto di vista clinico il termine follia non corrisponde a nessuna categoria diagnostica. Il termine follia, piuttosto, può essere comunemente inteso come la perdita dell’esame di realtà da parte della persona, con conseguente difficoltà di adattamento al contesto al quale appartiene.
Senza dubbio, ciò che noi giudichiamo come folle viene profondamente influenzato dal contesto storico, sociale e culturale. In psichiatria il termine ha lasciato spazio a definizioni quali psicosi, slatentizzazione, scompenso, termini che stanno ad indicare la perdita della capacità di controllo dell’individuo nella relazione con la realtà e con l’altro da sé.
Nella psicoanalisi, spesso il termine follia veniva associato al prevalere della parte istintuale su quella razionale.
Che storia ha la follia nella cultura occidentale?
Questo è un tema molto ampio, che può essere sintetizzato come segue. Il termine “follia” deriva dal latino follis, che significa mancanza. Nella cultura occidentale, a partire dal Medioevo, il termine follia era legato alla sfera sacra: il folle era qualcuno che era in contatto con il divino e che, quindi, andava ascoltato.
Fu Ippocrate tra i primi, intorno al quarto, quinto secolo avanti Cristo, a ipotizzare che lo stato di follia fosse l’espressione di uno sbilanciamento tra quattro umori: sangue proveniente dal cuore, bile gialla del fegato, flegma umido dal cervello e bile nera dalla milza. Se prevaleva la bile nera, allora l’indole della persona era di umore triste, se prevaleva il sangue, l’indole era più aggressiva.
Questa dimensione di iniziale tentativo di comprensione del comportamento bizzarro dell’umano si è poi modificata nel Medioevo. In questo periodo storico il folle era qualcuno che, al contrario, risultava essere impossessato dal demonio ed era quindi estremamente pericoloso, tanto da essere spesso bruciato sul rogo.
Nel Rinascimento, invece, la follia incontrò anche interpretazioni opposte: il folle era qualcuno che presentava un diverso modo di vivere e di rapportarsi alla realtà, pertanto andava rispettato.
La follia in Husserl e Jaspers
Quest’ultimo pensiero ha posto le basi per la fenomenologia, grazie al filosofo tedesco Edmund Husserl e allo psichiatra tedesco Karl Jaspers poi, iniziò a strutturarsi una corrente di studi relativa alla comprensione del folle, che andava accolto e curato, e non essere più oggetto di stigma, né le malattie mentali furono più viste come un fatto increscioso da nascondere.
Solo molti anni dopo, a partire dal diciottesimo secolo, in Francia, Germania ed Inghilterra, iniziarono ad essere strutturati per la prima volta i primi ospedali dove venivano accolti tutti coloro considerati folli, che si discostavano anche dalle norme sociali dell’epoca. In questi anni iniziarono, infatti, a farsi strada le prime rudimentali osservazioni sulla psiche, che portarono a studi maggiormente strutturati nel corso dell’800.
Anche la letteratura, non solo contemporanea, ha affrontato il tema della follia, una follia che percorre il libro omonimo dello scrittore inglese Patrick McGrath, per fare uno tra i molti esempi.
Quali condizioni mentali sono etichettate come follia?
Se per follia intendiamo un comportamento bizzarro o eccentrico uno discostamento importante dalla capacità di adattamento dell’individuo alle regole della società, allora potremmo affermare che alcuni stati psicotici in scompenso potrebbero incontrare questa definizione.
La persona perde l’esame di realtà, è come vittima di un apparente distacco, e può manifestare:
- deliri e allucinazioni
- difficoltà importanti di orientamento nello spazio e nel tempo
- importanti dispercezioni di sé e dell’altro.
Possono inoltre manifestarsi:
- eloquio disorganizzato
- reazioni emotive spropositate rispetto allo stimolo esterno
- un dialogo interno destrutturato.
Che succede nel cervello di un folle?
Se prendiamo come esempio la schizofrenia, vi sono stati vari studi per comprendere il substrato neurologico di questa condizione. Ovviamente, ogni sofferenza psichica ha un’eziologia complessa che prende in considerazione non solo il substrato neurologico, ma anche:
- l’ambiente di sviluppo
- la qualità delle relazioni interpersonali nelle quali la persona è cresciuta
- lo stile di attaccamento.
Nel 2017 uno studio di Carlo Nicolini, Angelo Bifone e Cécilie Bordier mostrò come nei pazienti schizofrenici, i ventricoli laterali avessero dimensioni maggiori rispetto ai soggetti sani, oltre ad una diminuzione del parenchima cerebrale ed una riduzione delle strutture temporali mesiali.
Le moderne tecniche di neuroimaging avrebbero quindi messo in luce un’anomala connettività funzionale e strutturale a livello della corteccia prefrontale e dei lobi temporali, in particolare nell’emisfero sinistro.
Come si fa a capire se si è pazzi?
Ci sono alcuni elementi che possono aiutarci a comprendere se stiamo attraversando un periodo particolarmente complesso e se, in un qualche modo, la nostra psiche ne stia soffrendo in maniera importante. Ovviamente, gli elementi che possono indicarci che siamo in difficoltà possono essere molteplici e disparati, proviamo ad individuarne alcuni.
Tra i primi elementi importanti da osservare ci sono quelli legati ai bisogni di base:
- sono presenti disturbi del sonno?
- alterazioni delle abitudini alimentari?
- si verificano cambiamenti di umore? Per esempio un umore molto più basso del solito o, al contrario, fortemente più eccitato
- ci sono delle oscillazioni importanti da uno stato all’altro?
Un altro elemento importante riguarda la relazione con gli altri. Tutti attraversiamo periodi della nostra vita, periodi in cui, ad esempio, abbiamo necessità di ritirarci e stare in intimità con noi stessi. Quando però questi periodi iniziano ad essere vissuti in via esclusiva, si ha per esempio difficoltà ad uscire dalla propria stanza e ad affrontare il proprio quotidiano, e sono accompagnati da un pensiero rigido, da pensieri di sfiducia o sospettosità verso l’altro, allora dobbiamo porci qualche domanda.
Oppure al contrario, potremmo incontrare vissuti in modo opposto. Vissuti quali reazioni emotive di iperattivazione, come una gioia eccessiva una, irritabilità importante, un eloquio disorganizzato, logorrea.
La qualità del dialogo interno
Un ulteriore elemento da considerare riguarda la qualità del proprio pensiero, il dialogo interno, il come rappresento l’altro a livello interno. Lo vedo, ad esempio, minaccioso? Mi sento costantemente oggetto di critiche, bersagli?
Questi, viene da sé, possono essere anche stati transitori, legati ad un momento di particolare stress psichico o fisico. Nel caso, però, perdurino per più di sei mesi, è sempre opportuno chiedere aiuto e confrontarsi con un professionista della salute mentale.
Quali terapie sono previste?
Le terapie previste possono essere molteplici. Il supporto farmacologico, in alcune situazioni, diventa indispensabile. Diminuisce la quota di angoscia che molti stati di sofferenza psichica comportano.
Si può intraprendere una psicoterapia psicoanalitica per esplorare le radici profonde della sofferenza, o una terapia cognitivo comportamentale che va, ad esempio, a lavorare per strutturare delle strategie cognitive e comportamentali per gestire al meglio i momenti di difficoltà.
Utile è anche l’intervento psicoeducativo, in cui la persona viene accompagnata a comprendere le modalità più efficaci per potersi relazionare con l’esterno, per favorire un maggiore adattamento al contesto di vita quotidiano. È anche poi utile la terapia di supporto famigliare: più la persona che soffre sente che c’è una rete che si prende cura di lui in modo efficace, maggiori sono i risultati anche della terapia farmacologica, o individuale.
(9 Novembre 2022)