Emilio Fava, psichiatra, psicoterapeuta e docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore è autore insieme a Gruppo Zoe di “La competenza a curare: il contributo della ricerca empirica”. In questa intervista ci racconta che cos’è la psicoterapia, perché funziona e come possiamo dimostrare scientificamente la sua efficacia di cura.
Nell’immaginario collettivo la psicoterapia è una specie di terra di mezzo tra la cura “vera” (quella medica) e le pratiche di guida “spirituali” con basi tutt’altro che scientifiche.
Dottor Fava, possiamo finalmente chiarire la collocazione della psicoterapia nel mondo della ricerca? Esistono prove scientifiche che dimostrano la sua efficacia?
“Sì, assolutamente. La dimostrazione dell’efficacia della psicoterapia è ormai un dato incontrovertibile, ottenuto anche con metodi rigorosi, di tipo sperimentale, e indipendenti.
Le prove di efficacia che abbiamo sono diverse e valgono in particolare per le terapie cognitive e cognitivo-comportamentali, per le terapie di orientamento psicoanalitico e interpersonale e per alcune forme di psicoterapia familiare. È stato anche dimostrato che le terapie farmacologiche danno risultati migliori se accompagnate da trattamenti psicoterapeutici, riducendo il rischio di interruzioni precoci della terapia o di dipendenza dai farmaci.
Inoltre è provato che oltre a dare risultati permanenti, i trattamenti psicoterapeutici, specie quelli più intensivi, continuano a portare miglioramenti anche dopo la fine del trattamento. Questo perché le psicoterapie in generale non agiscono solo sui sintomi, ma anche sul funzionamento complessivo della persona.
Certo, questo non vuol dire che qualsiasi pratica che si autodefinisca psicoterapia sia efficace e che lo sia per tutti; anzi, occorrerebbe una maggiore attenzione alla qualità dei trattamenti erogati e alla scelta della psicoterapia più adatta per ciascun paziente.”
Le scuole di psicoterapia sono numerose e diverse tra loro. Secondo quello che viene chiamato “Verdetto del Dodo”, però, anche quando basate su scuole diverse e principi diversi, le psicoterapie hanno nella maggior parte dei casi esiti paragonabili. Come si spiega questo fenomeno?
“È tuttora difficile stabilire la superiorità di un tipo di trattamento sugli altri, in particolare se ci riferiamo alle forme di psicoterapia più studiate. Questo è dovuto a diversi motivi, ma il principale è che negli studi di efficacia, i risultati che emergono sono effetti dei cosiddetti fattori aspecifici, e cioè quei fattori terapeutici che sono comuni alle diverse forme di psicoterapia. Alcuni sono, per esempio, la relazione tra paziente e terapeuta o la messa a fuoco e l’accordo sugli obiettivi del trattamento (alleanza di lavoro).
Inoltre, la ricerca ha mostrato che spesso i terapeuti di diverse scuole fanno cose molto più simili tra di loro di quanto non ci aspetterebbe dai modelli teorici di riferimento e dalle “etichette” apposte ai trattamenti.
Infine occorre tener conto che pazienti con la medesima diagnosi sono in realtà molto diversi tra di loro e più o meno adatti a certe forme di intervento. Per esempio alcuni pazienti sono più adatti a un intervento di tipo cognitivo-comportamentale e altri a interventi fondati sulla riflessione e l’autocoscienza. Se il gruppo dei pazienti che entrano in uno studio di efficacia è disomogeneo per queste caratteristiche di personalità, questo può mascherare le differenze di esito tra i diversi tipi di psicoterapia.”
Quindi i fattori specifici delle diverse scuole non hanno una loro efficacia?
“Le tecniche specifiche di un determinato tipo di terapia non vanno sopravvalutate come si è fatto in passato, ma comunque hanno una notevole importanza rispetto agli esiti della psicoterapia. La vera questione è l’adeguatezza di un certo tipo di tecnica rispetto a uno specifico problema, un tipo di paziente o una fase dell’evoluzione personale o della terapia. Inoltre quando parliamo dei fattori comuni alle diverse scuole dobbiamo ricordare che non ci riferiamo ad atteggiamenti generici, ma ad abilità complesse che implicano lo sviluppo di competenze fondamentali da parte del terapeuta, come le capacità empatiche e di ascolto, l’astinenza dall’usare l’altro per i propri bisogni, la capacità di strutturare una visione del problema compatibile con quella del paziente, la flessibilità del metodo di lavoro.”
I fattori cosiddetti extraterapeutici influiscono per il 40 per cento sull’efficacia di una psicoterapia: che cosa sono questi fattori e perché sono così importanti?
“I fattori extraterapeutici, cioè gli eventi di vita, così come altre caratteristiche del paziente, per esempio le sue abilità sociali, lavorative e relazionali, influiscono notevolmente sull’evoluzione del disturbo psichico. I terapeuti ne devono tener conto considerando anche ciò che avviene nel contesto sociale del paziente, le risorse e gli impedimenti che l’ambiente offre al paziente. La gestione degli aspetti extraterapeutici, come dice la parola, non deve però essere gestita dal terapeuta, ma da altri operatori.”
Nella pratica, come si capisce che una terapia sta funzionando (sia dal lato del paziente, che dal lato dello specialista)?
“Questa è una bella domanda. In generale quando il paziente non si sente compreso e aiutato dal terapeuta c’è qualcosa che non va. Se si verifica questa situazione, il paziente deve parlarne con il terapeuta, cosa che spesso non avviene. Quando avviene, la risposta del terapeuta può riuscire a ricreare un clima di fiducia, ma se ciò non accade è meglio cambiare specialista o tipo di psicoterapia.
In generale il terapeuta dovrebbe essere in grado di spiegare almeno in parte la natura delle difficoltà che la psicoterapia sta incontrando. Risposte troppo generiche e imprecise lasciano pensare che neppure lui abbia capito la natura del problema da affrontare e che quindi abbia le idee poco chiare e un progetto terapeutico troppo poco strutturato. Se invece il terapeuta non si prende nessuna responsabilità sull’andamento della cura e, anzi, mostra un atteggiamento di biasimo o critica verso il paziente, allora è meglio scappare a gambe levate.
Per quanto riguarda il terapeuta, la questione è complessa e dettata da fattori diversi: alcuni pazienti sono poco adatti a trattamenti psicoterapeutici fondati sulla collaborazione consapevole, oppure può esserci una forte differenza e inconciliabilità tra gli obiettivi del paziente e quelli del terapeuta. Il problema del paziente può non essere adeguatamente focalizzato, gli interventi possono essere inappropriati per quel tipo di persona o possono emergere resistenze al cambiamento. Talvolta semplicemente occorre più tempo per far ingranare la terapia. Ci sono poi casi in cui il motivo per cui una psicoterapia non funziona resta un mistero.”
Una terapia può essere efficace o innocua, ma può anche rivelarsi dannosa?
“I fattori nocivi in una psicoterapia sono per certi versi il negativo dei fattori terapeutici. I principali fattori nocivi sono l’assenza di empatia, la mancanza di accuratezza nella definizione del problema del paziente, il criticismo e la scarsa fiducia nelle sue capacità, la cattiva gestione dei sentimenti indotti dal paziente nella relazione terapeutica (controtransfert), il non saper cogliere le rotture dell’alleanza e l’inflessibilità del metodo. Alcuni tipi di intervento, come per esempio dare consigli o suggerimenti comportamentali su cosa fare al di fuori della terapia, sembrano correlati a esiti negativi. Talora gli psicoterapeuti trascurano i bisogni medici e sociali dei pazienti. Queste tendenze non solo impediscono i cambiamenti terapeutici, ma minano la fiducia nel paziente verso sé stesso e influenzano la sua speranza di guarigione. Come tutte le terapie efficaci anche i trattamenti psicoterapeutici, quindi, possono essere inutili o dannosi se non sono condotti adeguatamente.”
Emilio Fava e Gruppo Zoe, La competenza a curare: il contributo della ricerca empirica, 2016, Mimesis editore
(22 Marzo 2017)