Riconosce le proprie debolezze, non ha mai la risposta pronta e ogni volta che viene consultato fa “tabula rasa” di ogni preconcetto: lo psicoterapeuta si muove su binari diversi, spesso opposti, rispetto agli altri professionisti. Deve inoltre fare i conti con il rischio di isolarsi troppo e di sviluppare deliri di onnipotenza.
Quella di psicoterapeuta è una professione insolita, che possiede alcune peculiarità che la rendono diversa dalle altre. Esserlo significa, per esempio, esporsi volontariamente alla sofferenza altrui, e spesso in una condizione di solitudine. Ogni terapeuta, infatti, terminata la sua lunga formazione nell’istituzione di appartenenza, a un certo punto si ritrova nel suo studio professionale, privo dei dispositivi del suo training (analisi, supervisioni, seminari, lezioni), ad affrontare situazioni complesse, per le quali non ci sono ricette pronte o linee guida. Della solitudine e dei paradossi che caratterizzano questa professione si è occupata Nina Coltart, psicoanalista della British Psychoanalytical Society, nel libro – diretto agli specialisti – Come sopravvivere da psicoterapeuta (Utet).
La debolezza è la forza
Riconoscere e tollerare i numerosi paradossi presenti nella vita dello psicoterapeuta è essenziale al fine di sopravvivere “piacevolmente”. Il principale paradosso consiste nel fatto che la preparazione degli psicoterapeuti si basa sulle loro debolezze, mentre tutte le altre professioni si basano sulla forza. In altre parole, è fondamentale che lo psicoterapeuta sia consapevole delle proprie numerose fragilità (malgrado l’analisi e per merito dell’analisi), dei limiti della propria esperienza e dei limiti della propria conoscenza.
Saper non rispondere
In molti settori della vita, quando ci rivolgiamo a un esperto per avere un consiglio, vogliamo risposte definitive. È qui che i paradossi della professione di psicoterapeuta si manifestano più chiaramente. Un terapeuta sa ascoltare quello che gli viene detto e anche ciò che è taciuto, e non dispensa risposte pronte e facili consigli. Questa posizione di attesa, in cui ci si sintonizza con l’angoscia carica di domande del proprio paziente, può essere difficile da tollerare, soprattutto per i terapeuti giovani, minacciati dall’“ansia del principiante”. Questa ansia è destinata a dissiparsi gradualmente, man mano conosce e interiorizza ciò che è veramente destinato ad appartenergli; mentre il sapere si deposita nel serbatoio dell’inconscio, impara ad affrontare in maniera più disinvolta ogni seduta e diventa via via più sicuro.
Fare tabula rasa
La preservazione consapevole e attenta delle capacità di non intervenire con ricette pronte, consigli standard, permette di rivolgere a ogni paziente, durante ogni seduta, una superficie pulita e ricettiva. Lo psicoanalista Wilfred Bion parlava della necessità di incontrare ogni paziente “senza memoria e desiderio”: con questa indicazione voleva suggerire un atteggiamento di completa disponibilità ad accogliere il paziente nel momento presente, come una tavoletta di cera da cui sono state cancellate le scritte precedenti, una tabula rasa appunto, ma non per questo vuota. Questo atteggiamento mentale ha il merito di aiutare lo psicoterapeuta a lasciarsi sorprendere dai propri pazienti. D’altro canto, anche il terapeuta deve sperare di riuscire a sorprendere i propri pazienti, afferrando un concetto da una nuova prospettiva, o spingendosi al di là del significato apparente del suo discorso. Farsi sorprendere dal paziente e sorprenderlo a propria volta permette di conservare l’entusiasmo nel proprio lavoro, anche dopo molti anni.
La fiducia nel processo
Il particolare tipo di solitudine dello psicoterapeuta, la sua volontaria e continua esposizione alla sofferenza altrui, si accompagna alla speranza – o convinzione – che il modo in cui offre se stesso possa costituire una terapia in grado di guarire l’altro. Sa riconoscere, e farne prendere coscienza all’altra persona, che non conosce la risposta, ma che ha fiducia nel fatto che la sua presenza aiuterà il paziente nel cammino verso una maggiore conoscenza di sé e che, grazie a quella conoscenza, potrà migliorare le sue condizioni.
Il rischio di sentirsi onnipotente
Un ulteriore aspetto specifico riguarda i rischi insiti nel mestiere di psicoterapeuta: il terapeuta conduce spesso esistenze isolate e insolite: nell’ambito della sua professione, principalmente incontra poche persone che, per un certo periodo, diventano estremamente dipendenti da lui. Questo può angosciare o stancare al punto da avere la tendenza a rifiutare altri contatti umani al di fuori di quelli lavorativi, o a scivolare in uno stato di onnipotenza, che fa rifiutare o minimizzare i segnali di disagio che vengono dai pazienti. Per questo è indispensabile coltivare altre aree di interessi, che preferibilmente non abbiano niente a che fare con la psicoterapia, come l’attività fisica, il giardinaggio o la meditazione.
La vocazione come fattore protettivo
Solo quando una persona che sceglie di fare lo psicoterapeuta è profondamente convinta di aver fatto ciò che realmente desiderava e voleva, ciò che appunto è adatto a sè, solo dunque in questo caso potrà cominciare a pensare al proprio lavoro non solo in termini di fatica, ma anche come a un’occasione di crescita e di piacere. Quando si persegue la propria vocazione è in fondo necessario superare molte avversità, anzi, la presenza di quella indispensabile facoltà che è la paziente sopportazione è uno dei sistemi utilizzati per mettere alla prova la vocazione.
Essere autentici
Per concludere, accogliere e contenere le angosce profonde dei pazienti è un po’ come un atto di fede che, per il suo fiducioso “ottimismo”, distingue la psicoterapia dalle altre professioni di aiuto. È un esercitarsi costante a stare in equilibrio con tutte quelle abilità che avanzano insieme in modo paradossale e diverso a ogni nuovo incontro, conducendo a preferire sempre l’autenticità, anche quando è scomoda e dall’esito imprevedibile, all’astuzia clinica.