L’attenzione è una risorsa mentale sottile, sfuggente, invisibile quasi, e per questo viene generalmente poco considerata. Eppure riveste un’importanza enorme rispetto al modo in cui affrontiamo la vita: i suoi effetti, come hanno spiegato in questi ultimi anni le neuroscienze, si fanno sentire nella maggior parte delle cose che facciamo, soprattutto oggi che siamo assediati da una marea di dati e stimoli difficili da gestire.
A chi non è mai capitato di pensare “basta, o spengo lo smartphone o non riuscirò mai a finire quello che sto facendo”? Come mai concentrarsi risulta talvolta così difficile? Perché il nostro sistema di governo dell’attenzione, che ha preso forma per convivere con i pericoli e le opportunità dell’età della pietra, è rimasto lo stesso oggi, nell’era iperconnessa degli smartphone. Nel suo libro Focus – The hidden driver of excellence, Daniel Goleman parla dell’attenzione e dei meccanismi di funzionamento e di controllo di questa risorsa intellettiva critica e sempre più minacciata dal crescente sovraccarico di stimoli, obiettivi, informazioni e relazioni.
Secondo Goleman, psicologo, scrittore e giornalista statunitense, l’attenzione può essere concentrata come un fascio sottile, in modo da guardare solo un particolare, oppure “aperta” in modo da comprendere un insieme di cose. Per governare l’attenzione è utile essere consapevoli di queste due lunghezze focali e saper passare abilmente da una all’altra.
L’attenzione concentrata può poi essere rivolta verso se stessi (permettendo di accrescere autoconsapevolezza e autocontrollo) oppure verso gli altri (favorendo la risposta empatica e una buona gestione delle relazioni). La capacità di mettere a fuoco un singolo oggetto ignorando tutto il resto risiede nelle regioni prefrontali del cervello, dove alcuni circuiti neurali specializzati rafforzano i segnali su cui vogliamo concentrarci (quella specifica e-mail) e smorzano quelli che scegliamo di ignorare (le persone che stanno chiacchierando al tavolo accanto).
Attenzione bottom up e top down
Esistono meccanismi cerebrali bottom-up (che procedono dal sostrato della corteccia verso meccanismi corticali più evoluti) e meccanismi top-down che procedono inversamente. I primi determinano un percorso istintivo dell’attenzione, i secondi esercitano un’azione di controllo elaborando piani e regole.
Il bottom-up, più arcaico ma ancora perfettamente funzionante, produce azioni automatiche e pensieri intuitivi buoni per muoversi in ambienti ostili, in modo prontamente reattivo, come possibili predatori o possibili prede.
Il sistema top-down, che distingue l’uomo dai suoi progenitori meno evoluti, produce invece più laboriose azioni intenzionali di analisi dei problemi, di valutazione e di pianificazione.
Il primo meccanismo è a basso dispendio di “energia” psichica, il secondo richiede invece un certo sforzo intenzionale e può provocare affaticamento. Il bottom-up è sempre attivo, prendendosi cura (in forma automatica) di una grande parte dei problemi quotidiani e prendendo il controllo quando si presentano condizioni mutevoli: per esempio nel pericolo o nello sforzo immediato. Il top-down prende invece il controllo quando la situazione costringe a tirare fuori alcune caratteristiche mentali riflessive, tipicamente umane.
Un altro caso in cui il pensiero bottom-up prende il sopravvento sul pensiero lento è quando l’attività riflessiva, che è estremamente dispendiosa di energie mentali, provoca affaticamento. I sistemi bottom-up e top-down “si spartiscono” dunque i compiti mentali. Quando una routine diventa familiare, si sposta dal sistema alto a quello basso, diventando automatica, e l’attenzione che dobbiamo prestarle diminuisce fino a ridursi a zero.
Il livello massimo di questo automatismo viene raggiunto nello stato di “flusso”, dove l’esperienza maturata sposta compiti complessi nell’area dell’automatismo, consentendo di liberare risorse di attenzione che ci danno prestazioni eccezionali per creatività, visione complessiva dei problemi, gestione del tempo e della produttività, stato di benessere e sensazione di controllo.
I deficit di attenzione
I deficit di attenzione di cui soffrono alcune persone sembrano dipendere da una cattiva gestione di questi due modi di pensiero che competono nel controllo dei processi mentali e, quindi, dei processi organizzativi.
Nemico della concentrazione (e anche dell’apprendimento) è il cosiddetto wandering, il vagare e il moltiplicarsi di pensieri che non hanno nulla a che fare con quello che stiamo facendo e che spesso sono disordinatamente evocati, in modo bottom-up, dalle emozioni.
Questo succede, per esempio, quando guardiamo continuamente la posta elettronica o Whatsapp per sentirci rassicurati o ci facciamo sopraffare dal chiacchiericcio mentale e dal ruminare continuo di pensieri ansiosi.
Il vagare incontrollato della mente – ben diverso dalla mindfulness e dal flusso, che sono stati ottimali della mente – è un elemento generalmente considerato negativo. Quando sappiamo controllare il passaggio da vagare incontrollato a pensiero ordinato e focalizzato, anche il primo può diventare produttivo e generare pensiero divergente e creativo.
La pratica meditativa rafforza la rete dell’attenzione classica nel sistema fronto-parietale del cervello, che lavora per focalizzare l’attenzione selettiva, minimizzando quindi l’influenza delle distrazioni e permettendoci di concentrarci su ciò che è importante senza farci turbare da ciò che è attorno a noi.