È un maschio ma si sente una femmina. O viceversa. Che cosa fare quando il proprio figlio o la propria figlia mostra comportamenti “transgender”? Anche se il fenomeno non è così raro – circa un bambino su 100 secondo alcuni dati – risposte chiare ancora non ce ne sono. Sul tema abbiamo intervistato Antonio Prunas, professore associato di psicologia clinica all’Università degli studi di Milano-Bicocca.
Quanti sono in Italia i bambini “transgender”, la cui identità di genere non coincide con quella attribuita alla nascita (disforia di genere)?
“I numeri che abbiamo non sono certi. La difficoltà è data dal fatto che in Italia possiamo basarci solo su quei tentativi di quantificare il fenomeno che partono dagli ambienti clinici. Si tratta però di un numero sottostimato, poiché i minori che arrivano all’attenzione clinica sono meno rispetto a quanti mostrano segnali più o meno forti di disagio rispetto all’identità di genere. Inoltre, è un numero “sporco” perché comprende casi portati all’attenzione dai genitori che magari non hanno a che vedere con un quadro clinico di disforia. In definitiva, la situazione dati per quanto riguarda l’Italia è purtroppo ancora troppo poco organizzata e troppo parcellizzata nelle micro-realtà che se ne occupano per poter estrapolare un dato quantitativo accurato. Per avere una percentuale realistica possiamo fare riferimento a tentativi più sistematizzati di indagare il fenomeno, come alcuni studi di screening fatti in Olanda, i cui dati possono essere allargabili al contesto europeo: essi stimano la presenza di disforia di genere nei minori attorno all’1 per cento.”
È possibile per i genitori distinguere tra una naturale esplorazione dei ruoli di genere e una situazione di disagio più profondo legato a una disforia di genere?
“Una delle distinzioni fondamentali penso possa essere la quota di sofferenza mostrata dal bambino o bambina. Ogni situazione di questo tipo si rivela all’esterno soprattutto tramite comportamenti o tramite l’espressione di un vissuto più personale e intimo. In moltissime situazioni ci possono essere comportamenti nel bambino o nella bambina, parziali o più consistenti, che appaiono come non tradizionalmente congruenti rispetto al genere. Per esempio, prediligere e adottare giochi tipici del genere opposto può richiamare l’attenzione dei genitori, specie se è un bambino maschio a scegliere attività tradizionalmente femminili. Mi viene in mente un bambino che, nell’intimità familiare del “dopo doccia”, trova piacevole e divertente legarsi al capo un asciugamano per giocare ad avere i capelli lunghi. In molti di questi casi, però, c’è una serenità e una leggerezza che non hanno alcunché di allarmante. Anzi, potremmo dire che, in questi casi, l’eventuale disagio è più del genitore che del piccolo! Quindi, a fronte dei comportamenti, si consiglia di prestare molta attenzione alla qualità dell’esperienza rivelata dal bambino o dalla bambina e di sintonizzarsi su di essa più che sui “vincoli” che abbiamo noi nella mente come genitori.”
Un segnale di situazione più problematica viene invece dal fatto che il bambino o la bambina mostrano un senso di disagio esteso e pervasivo.
“Spesso i bambini ne parlano esplicitamente, mostrando sofferenza anche riguardo al futuro, e in più luoghi e contesti: in altre parole, il bambino o la bambina con disforia di genere danno segnali abbastanza chiari del fatto che l’appartenenza all’altro genere è una questione identitaria sempre più urgente e centrale per loro. Un esempio è chiedere in modo consistente di poter indossare indumenti o accessori tradizionalmente dell’altro genere anche in contesti che esulano dall’intimità domestica, diventando così sempre più espliciti e facenti parte dell’identità costante del bambino o della bambina.”
Ma che cosa i bambini sanno a proposito di sesso e genere?
“Gli studi in età evolutiva ci dicono che già a 3 anni i bambini e le bambine hanno una rudimentale idea di che cosa sia il genere, idea in costruzione che si amplia e si arricchisce nel tempo e che, all’età di circa 6 anni, acquisisce costanza e stabilità. In altre parole, è dai 6 anni in poi che i bambini e le bambine hanno chiara in mente l’idea che il sesso biologico, e il genere a esso relativo, non si modificano nel tempo e permangono stabili anche nel futuro.
Un passaggio cruciale, sempre a livello evolutivo, si ha poi nella fase puberale, con tutte le intense modificazioni psico-fisiologiche che la caratterizzano. Gran parte delle linee guida che abbiamo a proposito della disforia di genere, infatti, consiglia che la persona, prima di qualsivoglia modificazione, viva almeno una parte della pubertà, anche come “fase critica” dirimente a livello diagnostico. La ricerca è concorde nel delineare la fascia di età compresa tra i 10 e i 13 anni come un periodo cruciale in cui discernere i cosiddetti casi “desistent” da quelli “persistent”. In altre parole, con la pubertà, moltissime situazioni di disforia di genere si risolvono autonomamente – sono quindi “desistenti” – trovando una collocazione armoniosa senza ulteriori problematicità, mentre in una quota più ridotta di casi è proprio la svolta puberale a confermare una situazione di maggiore disagio che si configura come una disforia di genere in senso pieno. Sono questi i casi definiti “persistenti”.
Un ultimo aspetto che ci tengo a sottolineare, però, è che esiste una casistica meno nota ma non irrilevante. Mi riferisco a tutti quei casi di ragazzi che cominciano a manifestare una problematica di disforia di genere nel periodo adolescenziale senza mai aver dato segnali di disagio o ambiguità durante l’infanzia: questi casi rischiano di essere a maggior ragione oggetto di rifiuto e negazione non negoziabili da parte dei genitori, proprio a causa di questa modalità di emergenza “improvvisa” e non mediata da segnali antecedenti, che possono quindi richiamare un’ulteriore quota di misunderstanding da parte del genitore.”
Ma come devono reagire e confrontarsi i genitori di fronte a comportamenti “disforici” o a segnali esplicitati dal bambino o dalla bambina a proposito della propria identità di genere?
“Domanda complessa, a cui possiamo cercare di dare alcune indicazioni che però non possono in nessun modo esaurire le singolarità dei casi specifici. In generale, quello che è possibile dire con certezza è che ogni pratica che va nella linea della repressione dura non solo non è etica, ma è anche inefficace quando non apertamente dannosa e controproducente. Fatta questa doverosa premessa, si possono distinguere due grandi filoni rispetto a che cosa fare nei casi di ambiguità o disforia. Alcuni esperti suggeriscono un tempo di esplorazione e attesa, che quindi non contrasti o trascuri le richieste del bambino o della bambina ma nemmeno le sostenga in modo aperto ed esplicito: l’idea centrale è quella di tutelare il bambino o la bambina sul duplice piano di non accorrere nel rendere manifesta in tutti i campi l’ambiguità rispetto all’identità di genere, ma al contempo di non lanciare mai segnali di isolamento e disconferma di questo vissuto e, quindi, del bambino stesso. Altri specialisti, invece, tendono a essere più nettamente “affermativi”, cioè suggeriscono di approvare in modo esplicito qualsiasi richiesta del bambino o della bambina in questo ambito: l’assunto da cui si muovono è che per il bambino non può esistere danno maggiore di quello causato da una limitazione o rinuncia nell’espressione della propria identità di genere. Dato il tema così intimo e delicato, e con risonanze anche socio-culturali così ampie, non stupisce che ci siano approcci e visioni differenti.
Un’indicazione fondamentale però penso possa restare valida in ogni caso: il dialogo con i bambini e le bambine su queste tematiche deve poter essere il più possibile esplicito, libero, manifesto, per quanto comprensibilmente difficile e spesso doloroso per il genitore. Dialogare apertamente di quanto succede su questo livello psicologico è sempre un fattore protettivo del benessere del bambino o della bambina, che nel processo di comprensione di qualunque suo aspetto di ambiguità o disforia può così contare su una trasparenza delle comunicazioni e una maggiore condivisione di affetti e stati d’animo con i genitori.”
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(11 Ottobre 2018)