Un computer può essere empatico? L’intelligenza artificiale si sta sviluppando sempre di più, e potrebbe rivoluzionare il mondo della psicoterapia. I chatbot – al momento sviluppati quasi esclusivamente in lingua inglese – sono in grado di conversare in modo simile a esseri umani, ma sono in grado di somministrare una psicoterapia? Quali sono vantaggi e svantaggi di questi strumenti in ambito psicologico?
Il concetto di transumanesimo indica quel processo, più o meno lento, che ci dovrebbe portare a superare i limiti di utilizzo del solo corpo umano, in favore di una sempre maggiore interconnessione con le “macchine”. Anche la psicoterapia si è interrogata sul possibile utilizzo della tecnologia in ambito clinico, giovandosi dei progressi fatti in termini di intelligenza artificiale, machine learning e deep-learning (che cosa significano questi tre termini? Un video qui aiuta a fare chiarezza).
Già da ora la psicoterapia si sta avvalendo di diversi strumenti tecnologici con funzioni di varia natura. Concentriamoci sull’ambito ristretto della psicoterapia via chatbot.
Cos’è un chatbot?
Un chatbot è un software progettato per simulare una conversazione con un essere umano.
Tra i più conosciuti al momento troviamo Woebot e Tess/Chat with Sara. Queste intelligenze artificiali promettono di erogare prestazioni di supporto psicologico tramite il programma di Facebook Messenger. Ma quanto sono in grado, al momento, di cogliere lo stato d’animo di un possibile utente, e di indirizzarlo a un possibile stato di risoluzione del problema?
Entrambe le applicazioni funzionano tramite algoritmi con un discreto livello di intelligenza artificiale (AI), procedendo in modo maieutico tramite domande e suggerimenti in risposta a possibili errori di pensiero. In questo, i chatbot sono molto simili a ciò che alcuni decenni fa proponeva la psicoterapia cognitivo-comportamentale: trovare possibili distorsioni di pensiero, che causano disagio psicologico, e sostituirli con pensieri nuovi e migliori. Un esempio di distorsione del pensiero può essere: “non ho nessun valore, nessuno mi amerà”, che in una persona depressa può essere un assunto predominante. Nel processo terapeutico – reale o virtuale che sia – si cercherà di sostituire questo pensiero con altri più adeguati, per esempio riducendo l’auto-svalutazione costante del soggetto.
I chatbot, inoltre, possiedono dei trigger (cioè indizi che producono una certa risposta) in grado di avviare alcune sequenze specifiche di interazione. Per esempio, scrivendo “mi voglio uccidere”, il Bot viene attivato, fornendo numeri di telefono anti-suicidio e siti internet dove poter accedere a informazioni di prevenzione e presa in carico.
Se invece gli si propone un problema inerente una questione affettiva, il Bot tenterà di scomporre il problema chiedendo chiarimenti su sotto-specifiche del problema stesso. Per esempio, nel momento in cui gli si chieda una terapia per la tristezza, il Bot chiederà di specificare i pensieri negativi associati alla tristezza: procederà poi a chiedere una descrizione specifica di ogni pensiero negativo e valuterà se questo pensiero negativo abbia a che fare con qualcosa che fa l’individuo o fanno altri nella sua vita, fino ad arrivare a un teorico bias cognitivo. I bias sono errori cognitivi, e si manifestano in diversi modi, per esempio con la tendenza a vedere le cose troppo in bianco-nero, o ad assolutizzare un pensiero. Riprendendo l’esempio di prima, una persona che pensa di non poter essere amata da nessuno al mondo sta parlando in termini assoluti, estremi.
Il funzionamento del Bot prevede, infine, rinforzi e momenti scherzosi tramite immagini o GIF animate lanciate dal programma come premio o reward (ricompensa, il classico rinforzo delle teorie comportamentiste) alla fine di un determinato ciclo di scambi, e momenti di empatia con frasi in cui il programma dice di essere dispiaciuto per la nostra sofferenza.
Ma questi psico-Bot funzionano?
Esistono diversi studi che hanno valutato l’efficacia di un percorso di psicoterapia fatto tramite Bot. Allo stato attuale, la sensazione (perché di questo si tratta) che non si abbia a che fare con un individuo, e mancando quindi in pieno l’aspetto relazionale e affettivo, rende lo strumento utile, ma non del tutto efficace o risolutivo se si ragiona in termini di trattamento o cura di un determinato disturbo.
Lo psicoterapeuta virtuale, per lo stato attuale delle cose, non riesce a sostituire un terapeuta umano formato, ponendosi più realisticamente come supporto integrativo in grado di assolvere a funzioni minori (come il triage iniziale di un paziente, il fornire reperibilità costante, avere un costo nullo, l’indirizzamento su una pagina internet a un giusto recapito), nell’ambito dell’erogazione di servizi di supporto alla salute mentale.
Insomma, per la “cura della parola”, come la chiamò una delle prime pazienti di Freud, l’intelligenza artificiale per ora non è in grado di essere efficace quanto un essere umano. Tuttavia, i chatbot possono essere uno strumento innovativo e utilissimo per chi vuole avere maggiori informazioni sulla psicoterapia, su come funziona, quanto dura, e per iniziare un percorso di cura che, seppur meno efficace rispetto a una psicoterapia classicamente intesa, può essere comunque adeguato in un primo momento per iniziare a lavorare su di sé.
(4 Luglio 2019)