La depressione può favorire comportamenti violenti verso di sé o, più raramente, verso gli altri. Ecco perché è fondamentale riconoscerla e curarla per tempo.
Ha compiuto una strage? Ha ucciso senza apparente motivo? Colpa della depressione. Accade spesso che fatti di cronaca nera vengano messi in relazione con la malattia. È successo, per esempio, con l’oscura figura dell’attentatore di Nizza, dipinto dai media come una persona isolata, instabile e “con problemi psicologici”. Descrizioni simili le abbiamo trovate anche a proposito del diciottenne tedesco-iraniano autore della strage di Monaco di Baviera, del terrorista norvegese Anders Breivik e del copilota di Germanwings che fece schiantare il volo Barcellona-Dusseldorf.
Ma c’è davvero un legame tra depressione e atti violenti? La risposta è sì, sebbene in una minoranza di casi (nel 15-30 per cento, secondo gli ultimi dati). Proprio per questo è fondamentale riconoscere e curare la malattia: una maggior comprensione dei segnali d’allarme e una terapia corretta e tempestiva potrebbero infatti permettere di ridurre questi tragici episodi.
Che cos’è la depressione
La depressione è una malattia piuttosto comune; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità colpisce 350 milioni di persone, cioè circa il 5 per cento della popolazione globale, ed entro il 2020 sarà la seconda causa di disabilità dopo le patologie cardiovascolari. In Italia, secondo gli ultimi dati, ne soffre oltre una persona su 10. Ma solo un malato su tre chiede un aiuto medico.
Eppure riconoscere i sintomi d’allarme e rivolgersi a uno specialista migliora l’andamento del disturbo, riduce le difficoltà quotidiane e limita il numero di giornate di lavoro perse: infatti le cure hanno successo in più del 70 per cento dei casi già a partire dalla prima terapia impostata.
Come riconoscerla, dunque? Questi i sintomi più diffusi:
– abbassamento dell’umore
– facilità al pianto
– stanchezza fisica e mentale
– difficoltà nell’attenzione e nella concentrazione
– insonnia
– diminuzione dell’appetito e del peso.
Pensieri di morte
Esiste anche un altro sintomo importante: le idee suicidarie. Idee che non di rado, purtroppo, si concretizzano: dal 2 al 15 per cento delle persone depresse purtroppo si suicida. L’OMS stima che, nel mondo, ci siano 800.000 suicidi l’anno, e che il suicidio sia la causa più comune di morte nei giovani fino a 29 anni. In circa la metà dei casi il suicidio è una conseguenza della depressione.
L’altra faccia della medaglia è la cosiddetta “ideazione eterolesiva”, cioè l’idea di fare del male ad altri: più rara rispetto ai propositi di suicidio, è comunque significativa dal punto di vista statistico. Non sono molti i dati della letteratura scientifica a riguardo, ma alcuni studi forniscono le dimensioni del problema: si è arrivati a stimare che dal 16 al 28 per cento degli assassini era clinicamente depresso e una buona parte di loro ha tentato il suicidio poco tempo dopo l’omicidio.
Non bisogna però allarmarsi: uno studio dell’Università di Oxford ha dimostrato che le persone depresse che commettono reati violenti (omicidi, rapine, minacce, intimidazioni, ecc) sono una stretta minoranza, inferiore al 3 per cento, contro l’1 per cento circa della popolazione generale. Ma come individuare questa minoranza di depressi “pericolosi”?
Chi sono i depressi potenzialmente violenti
Alla fine degli anni ’80 un’importante ricerca pubblicata sul prestigioso American Journal of Psychiatry ha mostrato che le persone depresse che avevano commesso un omicidio avevano alcune caratteristiche diverse rispetto ai depressi che non avevano comportamenti violenti: più spesso di questi ultimi avevano subìto abusi fisici durante l’infanzia, presentavano un disturbo di personalità e facevano uso di droghe e alcol. Più recentemente alcune di queste caratteristiche sono state meglio delineate: per esempio, chi abusava di sostanze spesso soffriva anche di un Disturbo post-traumatico da stress, una condizione di grave sofferenza che segue a un evento traumatico. Questo disturbo è caratterizzato da momenti di forte irritabilità, scatti d’ira, sonno disturbato, incubi notturni e un continuo ripercorrere mentalmente il momento del trauma. L’abuso di droghe o alcol è, in questi casi, una forma di “automedicazione”, che sostituisce le terapie mediche. Il disturbo post-traumatico da stress associato alla depressione può cioè favorire condotte violente sia verso sé stessi che verso altri.
Un secondo fattore che favorisce i comportamenti violenti è la presenza di un Disturbo bipolare. Alcuni malati, nel corso della vita, accanto agli episodi depressivi riportano episodi di attivazione eccessiva (detti “maniacali”), caratterizzati da sintomi diametralmente opposti, come l’euforia, la disinibizione, l’impulsività, il senso di onnipotenza. Nel 2012 uno studio coreano su un’ampia popolazione di malati che avevano commesso un omicidio durante un periodo di malessere ha avuto un esito sorprendente: la maggior parte delle efferatezze vengono compiute durante un episodio depressivo e non durante uno maniacale. E anche in questo caso gli atti criminali sono favoriti dall’abuso di droghe.
Un terzo fattore che facilita comportamenti violenti è la compresenza di depressione e di un Disturbo psicopatico della personalità, caratterizzato da egocentrismo, impulsività, tendenze manipolatorie, bugie patologiche, mancanza di empatia e di senso di colpa. A questo proposito sono confortanti i risultati di un gruppo di ricerca dell’Università di Miami, che ha ottenuto importanti miglioramenti somministrando l’antidepressivo sertralina: il farmaco non determinava solo una diminuzione dei sintomi depressivi, ma permetteva anche di “smussare” alcuni aspetti patologici della personalità.
Questioni aperte
Alla luce di queste considerazioni, sorgono spontanee alcune domande: ci sarebbero stati questi attentati se quelle persone si fossero curate per tempo? Promuovere politiche sociali e di prevenzione medica, soprattutto nelle periferie delle grandi città o in ambienti poco agiati (è dimostrato che la bassa estrazione economica aumenta il rischio di depressione) può far sì che le persone più a rischio richiedano un aiuto medico? La letteratura scientifica e l’OMS non rispondono chiaramente a questi quesiti, ma tracciano una direzione da intraprendere: informare, prevenire e curare quanto prima possibile i malati. Permettendo loro di migliorare la propria vita, ma anche quella degli altri.
(18 Ottobre 2016)