Nati solo 60 anni fa, gli psicofarmaci hanno avuto una crescita impressionante. Ma il disagio psicichico, soprattutto ansia e depressione, continua a crescere. E allora? Non funzionano? O sono somministrati male? Ne abbiamo parlato con un esperto, Giovanni Fava, che spiega che bisogna cambiare l’approccio
Forse non tutti lo sanno ma la storia degli psicofarmaci è quella degli enfant prodige: eventi fuori dalla norma che bruciano le tappe. Tutto parte infatti non più di 60 anni fa. Fino ad allora lo spazio di cura delle malattie psichiatriche era territorio di scorribande diviso fra sciamani, apprendisti psico-esperti, medici che cercavano anche solo di capire e descrivere il disagio senza molto costrutto. Poi, senza una vera e propria teoria alla base, ma come spesso avviene, empiricamente fu proposto un derivato di anestetici, la cloropromazina, come farmaco utile per sedare i “matti che affollavano” gli allora manicomi, ricoveri per la redenzione morale degli alienati. Fu un successo! Effettivamente i comportamenti cambiavano: meno agitazione, meno inadeguatezza, maggiore equilibrio, meno idee bizzarre. La storia degli antidepressivi brucia le tappe e in 57 anni vengono scritti la bellezza di più di 12000 articoli scientifici sull’uso e l’efficacia dell’imipramina, uno dei primi composti utilizzati ed approvati dalla FDA ( Food and Drug Administration, l’ente americano che avvalla l’uso clinico dei farmaci, 1957).
Però, c’è un però…
Oggi si stima ci siano 450 milioni di malati psichiatrici, ansia e depressione soprattutto, qualcosa come 2 su 10 persone fra di noi hanno una qualche forma di disturbo. In America ogni giorno ci sono più di 800 nuovi invalidi per motivi psichici, in Italia la spesa per psicofarmaci aumenta costantemente del 5% anno su anno dal 2006, un italiano in media spende 17,5 euro all’anno.
Tutti numeri che documentano una costante e inesorabile crescita del disagio e della malattia mentale. Ma allora gli psicofarmaci non servono? Non funzionano?
Chiediamo l’ opinione ad una persona che ha detto e scritto molto su questo argomento, sbilanciandosi parecchio fino ad diventare poco gradito in certi salotti e scomodo in certi congressi, Giovanni Fava (direttore della prestigiosa rivista Psychotherapy and Psychosomatics )
“Sicuramente sono problemi comuni, al tempo stesso abbiamo assistito a una diffusione accentuata dell’uso di psicofarmaci senza seguire le indicazioni originali per cui erano stati sviluppati e testati. Si usano quindi troppo e inadeguatamente”
Ma sono così tanti i malati? È proprio vero questo aspetto numerico: stiamo assistendo all’epidemia di ansia e depressione che sono le malattie del secolo?
“C’è un problema di diagnosi. Le diagnosi DSM racchiudono determinati fenomeni ma sono solo una parte limitata del problema del paziente. Non è un fatto solo della psichiatria, ma anche della medicina in generale. La medicina è ancora strutturata con un modello ottocentesco, mentre lacondizione di disagio richiede un approccio multidisciplinare, non per organo, ma integrato sulla persona più che sul sintomo.”
Quali sono gli obiettivi di una terapia in ambito psichiatrico e psicologico?
“Aiutare il paziente a superare le difficoltà che lo attanagliano, combattere il dolore mentale, che spesso viene trascurato e fornire strumenti di auto-terapia; la psicoterapia in questo senso è uno strumento di auto-terapia. Proviamo a spiegare: la patologia induce limite pratico, ad esempio l’agorafobico non riesce a prendere la metropolitana e per lavorare deve fare un assurdo giro in macchina; questo aspetto non può essere trascurato nel piano di cura. Ma l’agorafobico ha anche un dolore morale legato alla vergogna di essere diverso, qualcosa di simile alla sensazione di sconfitta e di frustrazione, che inducono un senso enorme di fragilità. Anche questo elemento non va trascurato. Ma non solo: per recuperare il suo equilibrio la persona agorafobica dovrà lavorare su se stesso, sulla capacità di gestire emozioni, di rilassarsi, di sviluppare competenze emotive fragili, dovrà insomma fare un percorso di riabilitazione. La cura delle condizioni emozionali assomiglia maggiormente all’attività in palestra di un atleta che cerca di migliorare sempre più la sua tonicità, più che alla dinamica one shot del dentista che con una operazione ti ha sistemato il dente.”
Ma allora ha senso e quando quando pensare a terapie farmacologiche?
“Ci sono indicazioni ben precise. Il problema è che i farmaci in molti casi sono delle impalcature, su cui poi lavorare, se lasciamo solo il farmaco, come tanti lavori in Italia, rimane li….”
C’è poi l’aspetto dell’aumento della spesa: questo problema si pone soprattutto per l’uso cronico degli antidepressivi nei disturbi d’ansia.
“Confrontiamo un approccio cognitivo comportamentale al disturbo di panico che comporta una risoluzione della sintomatologia con 10-15 sedute in due terzi dei casi rispetto a un antidepressivo somministrato per anni : cosa costa di più e cosa da più vantaggi?”
Ma se dobbiamo stare attenti a terapia farmacologica le terapie psicologiche funzionano?
“Da un lato sussiste una spinta politica e commerciale all’uso di farmaci, anche se oggi con i generici la cosa si è un po’ attenuata, dall’altro esiste un problema di cultura del paziente, che spesso può chiedere ed aspettarsi in modo inadeguato, una soluzione “cotta e mangiata” al suo problema, la pillola magica. Da un lato la medicina basata sulle evidenze è sacrosanta e va conosciuta, studiata attentamente, ma a causa soprattutto delle differenze individuali il percorso di cura non può basarsi solo su di essa, ignorando il resto che “ eppur funziona”. Non si possono considerare solo le linee guida ma anche la valutazione individuale. Il successo delle medicine alternative è quasi sempre nell’approccio olistico in cui il paziente viene preso in carico. La ricerca dimostra che nessun trattamento può essere efficace senza i suoi ingredienti non specifici, che fanno parte della relazione; il paziente viene rincuorato, ascoltato, valutato , può condividere la sua esperienza. Non è solo effetto placebo: è una medicina diversa. C’è bisogno di un modello medico diverso, quello psicosomatico. Non dobbiamo rinnegare gli psicofarmaci e la psichiatria. Il modello medico è fondamentale ma va integrato in un paradigma epistemologico bio-psico-sociale in cui la persona ed il suo disagio sono il risultato di una fusione fra genetica, esperienze e biologia.”
Più informazioni sul trattamento non farmacologico della depressione
(10 Febbraio 2015)