Obiettivi elevati e volontà di fare sempre meglio sono una sana spinta alla nostra soddisfazione personale. Quando il desiderio di migliorarsi diventa eccessivo però, si rischia il perfezionismo patologico.
Fin dalla nascita siamo sottoposti a pressioni per il raggiungimento di obiettivi e per il miglioramento dei nostri risultati. Riceviamo costantemente valutazioni, premi, critiche, correzioni e spinte a migliorarci. Ma dove sta il confine fra un sano desiderio di migliorarsi e raggiungere obiettivi importanti e un perfezionismo patologico?
Cos’è il perfezionismo?
Gli specialisti del settore psicologico hanno avanzato alcune definizioni di perfezionismo.
Hewitt e Flett, psicologi canadesi, distinguono due tipi di perfezionismo:
- autodiretto, ovvero la tendenza personale a porsi obiettivi troppo elevati e, quindi, impossibili da raggiungere: ne consegue il timore di commettere errori e, talvolta, autocriticismo
- eterodiretto, ovvero la tendenza a pretendere che siano gli altri a fornire delle prestazioni impeccabili, conformi ai propri standard.
Randy Frost, docente di Psicologia allo Smith College, distingue alcuni fattori principali che caratterizzano i perfezionisti:
- esagerata preoccupazione di commettere errori, con conseguenti ansia, paura e timore del giudizio nelle prestazioni
- standard personali irragionevoli e troppo elevati, con conseguenti vissuti di incapacità e inadeguatezza a seguito della difficoltà di raggiungerli
- insicurezza e timore di non aver compiuto adeguatamente il proprio dovere
- bisogno di organizzazione con eccessiva meticolosità sul lavoro o nel tenere in ordine l’ambiente domestico
- percezione che gli altri significativi nutrano elevate aspettative nei confronti del soggetto
- percezione che gli altri siano o siano stati eccessivamente critici.
Cosa c’è all’origine?
La letteratura concorda nel dire che il perfezionismo ha origine da una combinazione di fattori ereditari e ambientali. Da un lato, infatti, alcune persone più di altre tendono, per carattere, a porsi obiettivi personali elevati e a mostrare una minore tolleranza di fronte alla possibilità di sbagliare o non riuscire. Ma sono soprattutto l’ambiente e il contesto sociale a giocare un ruolo determinante.
Proviamo a pensare agli anni della scuola. Siamo stati abituati da genitori e insegnanti, alcuni più di altri, a ricevere elogi per il raggiungimento di successi scolastici o personali. E viceversa, è capitato a tutti di essere stati puniti o rimproverati dopo aver commesso un errore o per non essersi abbastanza impegnati sul lavoro o a scuola.
Ma quando le critiche, i rimproveri o le spinte a fare meglio diventano frequenti, intense e prolungate nel tempo, è possibile che vengano rinforzati comportamenti perfezionistici in chi le riceve. La persona criticata o punita potrebbe iniziare a credere che sia fondamentale per poter essere apprezzata, amata o riconosciuta, non sbagliare mai. Gli errori inizieranno a essere vissuti con profondo senso di paura del rimprovero o con emozioni di vergogna e colpa. Diventa pian piano fondamentale riuscire a mantenere una buona immagine di sé ai propri occhi e a quelli degli altri. Si radica la convinzione che saremo bravi, degni, amabili nella misura in cui riusciremo nelle nostre prestazioni e otterremo buoni risultati.
Crescere con genitori a loro volta perfezionisti è un fattore che sembra influenzare la tendenza al perfezionismo: l’osservazione di coloro che abbiamo vicino può spingerci a comportarci in modo conforme.
Conseguenze negative
L’eccesso di perfezionismo può comportare conseguenze negative in termini di stress e difficoltà quotidiane.
Alcuni ambiti in cui un perfezionismo eccessivo può comportare difficoltà sono lo studio e il lavoro: ad esempio, la pretesa di fare un lavoro in maniera impeccabile può portare a non apprezzare abbastanza i risultati buoni ma non perfetti. Oppure, nella preparazione degli esami universitari la ricerca di una preparazione perfetta può generare vissuti di ansia tanto intensi da spingere a mettere in atto comportamenti di evitamento.
Può capitare, cioè, di essere portati a pensare “se non so tutto, tanto vale non andare all’esame perché mi bocceranno” o “se dovessero bocciarmi, non potrò tollerare la tristezza o la vergogna che proverò” e per questo decidere di non presentarsi all’esame. Ciò può innescare circoli viziosi di ansia, di timore di fallimento o di paura del giudizio altrui che possono compromettere il perseguimento di importanti obiettivi di vita e il generale benessere della persona.
Ancora, l’eccessivo tempo dedicato a obiettivi prestazionali può ridurre la quantità e la qualità del tempo trascorso con i propri figli, la propria famiglia e i propri amici. È capitato a tutti di dover rinunciare a una passione per lo studio o per una scadenza importante al lavoro, ma, se questa situazione diventa cronica e si prolunga nel tempo, si arriva a un livello di stress, ansia, nervosismo o tristezza eccessivo.
Perfezionismo “buono” e perfezionismo “cattivo”
Siete perfezionisti? Come sfruttare il desiderio di fare bene e raggiungere buoni risultati, senza sacrificare la propria qualità di vita e il proprio benessere mentale? Innanzi tutto domandiamoci se gli obiettivi che ci poniamo sono ragionevoli e realistici: sono davvero raggiungibili? O perseguirli richiederebbe un sacrificio e uno sforzo impossibile? Quanto sono importanti per noi questi obiettivi? Quanto tolleriamo l’idea di non riuscire a raggiungerli? E, soprattutto, quanto siamo disposti a raggiungerli solo in parte o con meno qualità?
Il criterio è soggettivo: potremmo non raggiungere mai quella perfezione che desideriamo. Il segreto sta nella flessibilità: voler raggiungere buoni risultati, dedicare tempo ed energie a ciò che per noi è importante, ma non essere impeccabili, “i più bravi” o bravi al cento per cento. La serenità e la riuscita, come spesso accade, molto spesso si trovano a metà strada.
(16 Giugno 2017)