La fiducia è necessaria per la nostra sopravvivenza. Ecco perché impariamo presto a coltivarla, e a distinguere di chi fidarci o no. Ed ecco perché la sua mancanza ha conseguenze psicopatologiche. Secondo Peter Fonagy, anche in psicoterapia il rapporto di fiducia tra curante e paziente è determinante.
In psicoterapia è noto come “verdetto del dodo”. Il dodo è un personaggio di Alice nel Paese delle meraviglie che indice una gara senza specificare i parametri che avrebbero decretato il vincitore; al termine della gara, per accontentare tutti i partecipanti, l’uccello dichiara: “Tutti hanno vinto, e tutti devono ricevere un premio”. Un verdetto simile hanno raggiunto gli studi di efficacia che hanno confrontato tra loro psicoterapie di diversi orientamenti: tutte funzionano e nessuna sembra superiore all’altra. Questo perché, si è detto, l’efficacia di una psicoterapia non è legata a tecniche o teorie specifiche, ma a qualcosa di molto generale comune a tutte le psicoterapie. Ma che cosa? Secondo Peter Fonagy, psicoterapeuta ungherese che oggi vive a Londra (noto soprattutto per aver elaborato il concetto di “mentalizzazione”), alla base del successo della psicoterapia c’è il rapporto di fiducia che si stabilisce tra terapeuta e paziente. “Fiducia” è una parola chiave in ambito terapeutico, sostiene Fonagy: se infatti è la capacità di ispirare fiducia, e quindi di dare avvio a una buona comunicazione e interazione, a spiegare il successo di una psicoterapia, è invece la rottura della fiducia negli altri a spiegare gran parte, se non tutte, le psicopatologie.
Evolutivamente fiduciosi
Secondo la teoria epistemica della fiducia, che Fonagy ha esposto nel 2015 a un convegno organizzato dall’Università di Pavia, la fiducia negli altri è un sistema che si è evoluto negli esseri umani poiché necessario per la sopravvivenza: poiché ogni neonato che viene al mondo si trova a confrontarsi con una realtà estremamente complessa, che non è in grado di decodificare da solo, ha bisogno di affidarsi ai suoi simili. Ecco perché, in fasi molto precoci della vita, impara a “fidarsi” degli altri. Dopo la nascita è infatti previsto un lungo periodo di apprendistato con “figure di attaccamento” (in genere i genitori), che non solo gli forniscono la “base sicura” per esplorare il mondo, ma anche gli permettono di sviluppare la capacità di “mentalizzare” (cioè di capire che gli altri hanno una propria mente, diversa dalla propria, e di immaginare che cosa pensano o sentono), necessaria per la collaborazione sociale. Questa capacità emerge attraverso l’interazione con i genitori e dipende dalla qualità della relazione. Il bambino, cioè, impara a “mentalizzare” se la mamma (o il papà) è in grado di comprendere accuratamente le sue intenzioni senza sopraffarlo, e se lo aiuta a regolare le proprie emozioni e a sviluppare la capacità di riflettere sugli stati d’animo degli altri. Sviluppare questa capacità è la base per la formazione della “fiducia epistemica”.
Di chi fidarsi
In altre parole, secondo Fonagy, poiché non siamo in grado di valutare da soli i contenuti delle varie informazioni che ci arrivano né di affrontare da soli la moltitudine di sfide che la vita ci presenta, si è evoluto un sistema che ci permette di distinguere tra persone affidabili, che ci consentono di apprendere, e persone inaffidabili, male informate e male intenzionate. Dalla nostra naturale capacità di individuare persone affidabili, deriva la trasmissione della conoscenza e quindi la cultura.
Ma come riconosciamo le persone affidabili? Secondo Fonagy, a guidarci nella scelta di persone in cui avere fiducia è un preciso criterio: ci fidiamo delle persone che “ci riconoscono”, cioè “ci mentalizzano”. Capire che il nostro interlocutore è interessato a noi, e comprende il nostro stato d’animo, innesca un canale protetto evolutivamente. Ecco perché una comunicazione contrassegnata da un riconoscimento dell’ascoltatore è più efficace: ha maggiore probabilità che venga accettata, e innesca la capacità di apprendere. Questo vale anche per la psicoterapia: l’esperienza di essere compreso genera un senso di sicurezza e fiducia, che a sua volta rende possibile l’esplorazione mentale, permettendo di focalizzare insieme l’attenzione sugli stati mentali di paziente e terapeuta.
Quando la fiducia non c’è
Quando invece la mentalizzazione fallisce, perdiamo l’occasione di imparare a fidarci. Perché accade? Secondo Fonagy, ci possono essere ragioni genetiche o ambientali precoci che impediscono l’attivazione del sistema di attaccamento o che interferiscono con la fisiologica reazione allo stress (il meccanismo di attacco e fuga). Oppure qualcosa non va nel rapporto tra genitori e figli: per esempio i genitori trascurano o maltrattano il figlio, oppure non si dedicano a lui in modo adeguato perché a loro volta vittime di gravi fattori stressanti (lutti, licenziamenti, gravi conflitti di coppia ecc), oppure hanno eccessive aspettative su di lui (è un altro modo di “non vederlo”, di trascurarne l’esperienza mentale).
La fiducia può cioè risultare compromessa se il bambino non individua nel suo ambiente figure affidabili e dal comportamento coerente. La distruzione della fiducia nei confronti dei genitori può generare una sfiducia di base che impedisce di comprendere e accettare l’ambiguità dei rapporti interpersonali, e induce a diffidare di tutti, a credere che le intenzioni degli interlocutori siano diverse da quelle dichiarate. I processi comunicativi saranno allora disturbati e l’apprendimento dall’esperienza pressoché impossibile. Tra le possibile conseguenze ci sarà un pensiero di tipo “inside-out” (ciò che viene sperimentato all’interno equivale all’esterno: “siccome lo sento, è così”) e “quick fix” (caratterizzato dal bisogno di essere rassicurati subito), oltre che un’oscillazione continua tra la ipermentalizzazione (la certezza eccessiva su ciò che gli altri pensano, e su ciò che si pensa: è impossibile fare qualcosa senza sapere bene perché) e la ipomentalizzazione (l’incertezza eccessiva, cioè la sensazione di non capire nulla, o di non essere minimamente interessato agli stati mentali altrui).
Adulti borderline
Quando la mentalizzazione fallisce è molto probabile che il bambino, crescendo, sviluppi un disturbo della personalità borderline, i cui sintomi di base sono: un senso generale di sfiducia, vulnerabilità, difficoltà interpersonali, forte impulsività, tentativi di suicidio.
Secondo Fonagy, cioè, i borderline soffrirebbero fondamentalmente di un grave disturbo della comunicazione conseguente a una profonda mancanza di fiducia. L’inaccessibilità alla comunicazione provoca rigidità e una vigilanza iperattiva: il borderline parte dal presupposto che le intenzioni dell’interlocutore siano diverse da quelle dichiarate. Ne consegue che non sta ad ascoltare il terapeuta: se non mette in pratica quanto viene detto, quindi, non è perché resiste o vuole provocare, ma perché non si fida, e quindi non apprende. Non è in grado di imparare dall’esperienza per l’assenza di fiducia sociale. Ha una rabbia primaria, un senso di vuoto interiore (a causa di un senso di isolamento intollerabile) e ha un costante (ma ambivalente) bisogno di sentirsi riconosciuto e “validato”. Su queste basi Fonagy ha elaborato, insieme al collega Anthony Bateman, un modello terapeutico basato sul potenziamento della capacità di mentalizzazione (la MBT,o Mentalization Based Therapy). Secondo questo modello, è fondamentale creare un contesto terapeutico in cui la “fiducia epistemica” possa svilupparsi ed estendersi al mondo esterno al paziente. Si tratta di un lavoro che può essere logorante, esasperante, faticosissimo. Ma è comunque fondamentale non gettare la spugna, anche se spesso si è tentati di farlo.