Essere incapaci di provare emozioni o di esprimerle, questo si intende con il termine anaffettività.
La persona definita anaffettiva, se prova delle emozioni, fa in modo che rimangano inespresse. Le ragioni di questa incapacità nel provare o nell’esprimere la parte emotiva del proprio essere si ritrovano nell’età infantile o nell’avvio dell’adolescenza.
In queste due epoche fondamentali per la costruzione della propria identità, può accadere che le figure di accudimento non si accorgano dei bisogni del bambino o dell’adolescente, o non siano in grado di soddisfarli in modo pieno e funzionale. Nel corso degli anni, il bambino e l’adolescente crescono nella falsa e distorta cognizione di non meritare affetto né di essere capace di darne, ed ecco che l’anaffettività agisce come difesa, sotto forma di distacco, del tutto disfunzionale.
L’affettività non è comunque, di per sé, una condizione patologica. Ma può produrre delle ripercussioni negative nei rapporti interpersonali.
Anaffettività, significato di una condizione non clinica
La parola anaffettività (an– privativo, affettività dal latino adfectus a sua volta composto dal prefisso ad-, verso, e dal verbo facere, fare), si riferisce alla difficoltà a provare ed esprimere sentimenti nei confronti di altri.
L’anaffettività non è di per sé una caratteristica che richiede attenzione clinica. Non indica cioè, in assenza di altri fenomeni che facciano da corollario, una patologia. Come per altre caratteristiche che contraddistinguono il funzionamento umano, non è semplicemente presente o assente, ma può svilupparsi ed esprimersi in modo più o meno intenso in ciascuno di noi nel corso della vita.
Cosa influenza lo sviluppo di uno stile relazionale più o meno “affettivo”
La maggiore o minore propensione a provare ed esprimere sentimenti rivolti a qualcuno ha le sue radici nell’interazione tra:
- fattori di predisposizione biologica
- qualità e tipologia degli scambi relazionali precoci con le principali figure di accudimento
- esperienze relazionali significative successive.
Chi si prende cura di noi ci garantisce protezione, cibo, calore, contatto fisico, scambi emotivi. Garantisce la nostra sopravvivenza quando non possiamo farlo da soli e, in genere, ci aiuta a dare un significato agli stati che il nostro organismo sperimenta. Riconosce sufficientemente bene quando abbiamo fame, sete, sonno. Sa quando siamo spaventati o proviamo dolore, e attraverso le sue espressioni corporee e i suoi comportamenti ci dà indicazioni su cosa ci sta capitando.
Nel prendersi cura di noi, la figura di accudimento ci comunica il suo interesse per i nostri bisogni e la possibilità di capire di quali si tratta.
Un bambino che mediamente vede riconosciuti i propri bisogni e trova una risposta che li soddisfi, inizierà a sviluppare una rappresentazione di sé come di una persona degna di amore e interesse da parte di un mondo, separato da lui, che è capace di capirlo e fornire ciò di cui necessita.
In un mondo con queste caratteristiche si sentirà sufficientemente al sicuro nell’esprimere i propri stati interni. Se penso che i miei sentimenti hanno un valore e che agli altri interessano, comunicarli diventa il modo migliore per stabilire legami significativi con le persone.
Nuove esperienze e nuove versioni della realtà
Questo punto di vista sul mondo, e le capacità su cui poggia, possono evolvere e cambiare nel corso della vita di una persona. Due fattori sono particolarmente importanti perché questo avvenga:
- la ripetizione di nuove esperienze che possano fornire informazioni differenti da quelle che si sono apprese in periodi precedenti
- la disponibilità della persona a considerare possibili altre versioni della realtà, quella che tecnicamente viene definita flessibilità cognitivo-emotiva.
Quando una persona diventa anaffettiva?
Immaginiamo ora la storia di qualcuno che fin da piccolo si relaziona con persone che hanno una capacità ridotta di accorgersi, riconoscere, prestare attenzione a ciò che gli succede. Anche quando intervengono, i suoi caregiver si comportano in modo poco congruo con i suoi bisogni o tendono a pensare principalmente ai propri. Un esempio di un’interazione di questo tipo è: hai fame ma cerco di metterti a letto, cerchi calore fisico ma ti do distrattamente da mangiare. Questi fraintendimenti non avvengono con intenzione malevola: probabilmente anche i caregiver, a loro volta, hanno potuto allenare poco queste capacità nel corso della loro vita.
Immaginiamo che quel bambino sistematicamente riceva questi tipi di risposte dall’ambiente. E che magari abbia ereditato una predisposizione biologica a cercare poco il contatto con gli altri (ad esempio a causa di un tratto temperamentale che predisponga a essere poco esplorativi).
È facile intuire la possibilità che questa persona, nel tempo, faccia fatica a capire quali stati interni sta vivendo, quali emozioni sta provando. Inoltre, è probabile che si aspetti dagli altri poco interesse e scarsa comprensione nei suoi confronti. Se queste sono le sue aspettative, per quale motivo dovrebbe sforzarsi di capire cosa sta sentendo e comunicarlo all’esterno? Rischierebbe solo di vivere nuovamente uno stato frustrante o doloroso.
È facile che si instauri una sorta di circolo vizioso, in cui meno mi espongo e più confermo le mie buone ragioni a non farlo.
Come si comporta la persona anaffettiva?
Nel suo relazionarsi con l’ambiente esterno, e le persone che lo abitano, l’anaffettivo può dare l’impressione di essere indifferente, freddo se non un vero e proprio cinico.
Ci sono in ogni caso diversi comportamenti e atteggiamenti che concorrono a definire affettiva una persona. Queste persone tendono ad avere particolare attenzione, anche esagerata, nei confronti di sé stesse, e non accolgono di buon grado le critiche.
Il distacco affettivo viene compensato con l’eccessiva dedizione al lavoro, che in ogni caso non riesce a colmare il senso di vuoto interiore che viene percepito. E il senso di vuoto non viene mitigato dalle relazioni, di cui l’anaffettivo è incapace di godere. Un’altra spia, per così dire, di affettività risiede nel rifiuto delle esperienze passate contraddistinte dal dolore o, anche, il totale rifiuto della propria infanzia.
Cosa prova l’anaffettivo?
Rispetto alla definizione data a questo stile relazione, posso specificare come l’anaffettivo tende a non provare emozioni e sicuramente, quando le prova, non è desideroso né di esprimerle né di condividerle.
In questo senso, l’anaffettività va distinta dall’alessitimia. In questa seconda condizione, infatti, la persona prova delle emozioni, ma allo stesso tempo esperisce l’impossibilità di tirarle fuori, per così dire. L’anaffettivo, è bene ripetere, tende a non avere affatto emozioni. Semplicemente le ha scalzate via.
Anaffettività e disturbi sessuali
L’affettività può incidere sulla sfera sessuale, dal momento che può determinare disfunzioni di diverso tipo. Riduzione o mancanza di desiderio, ad esempio.
Per una persona anaffettiva può essere inoltre particolarmente complesso, se non impossibile, eccitarsi o raggiungere l’orgasmo. E quando è in intimità con il proprio partner, o la propria partner, fatica ad avere un legame di tipo emotivo.
Come interagire con un anaffettivo?
L’interazione con una persona anaffettivo, sia in ambito di amicizia che in una relazione d’amore, può essere una condizione particolarmente sfidante.
Dal momento che le persone anaffettive hanno difficoltà ad esercitare ascolto e a comprendere appieno le emozioni degli altri, risulta inevitabile comunicare in modo chiaro e non ambiguo qualsiasi proprio vissuto interiore, opinione o una semplice proposta di svolgere attività insieme.
In una relazione d’amore, il partner o la partner di una persona anaffettiva ha particolare bisogno di esprimere le proprie emozioni e i propri bisogni in modo diretto e rispettoso di sé, tenendo sempre a mente l’eventualità che la persona anaffettiva potrebbe avere difficoltà a rispondere in modo empatico.
Anche nei rapporti di amicizia risulta utile stabilire confini chiari e comunicare apertamente le aspettative, mettendo comunque al primo posto i propri bisogni, e i propri desideri, sapendo che una persona anaffettiva potrà non rispondere alle richieste, benché espresse in modo diretto e assertivo.
Quando l’anaffettività diventa un problema e come si può affrontare
In genere uno stile anaffettivo diventa un problema quando assume le caratteristiche di un ostacolo all’appagamento di bisogni relazionali cui la persona dà valore e importanza. Talvolta è la persona anaffettiva stessa che ne coglie i limiti, talvolta è il partner che esplicita la presenza di qualcosa che non va e che può minare la tenuta del legame.
La psicoterapia può aiutare una persona a scoprire e dare valore al suo mondo interno, rendendolo più facilmente comunicabile. Ciò è particolarmente vero per le terapie più orientate all’attenzione sulla metacognizione, la mentalizzazione e le dinamiche relazionali (approcci psicodinamici relazionali, cognitivo costruttivisti o metacognitivo-interpersonali).
L’obiettivo di un lavoro psicoterapeutico di questo tipo non è mai uno stravolgimento del modo di funzionare di una persona. Si tratta, piuttosto, di un delicato e progressivo accompagnamento a esplorare scenari alternativi che non si sono potuti esplorare in altri modi.
Il livello di anaffettività di una persona non è immutabile, e con la psicoterapia si cerca di avvicinarsi al minimo cambiamento necessario perché quella caratteristica non costituisca più, per quella persona, un problema.
Per concludere, credo sia utile ricordare che quella modalità anaffettiva ha richiesto molti anni per costruirsi. Chi sceglie di iniziare un percorso di psicoterapia per lavorarci deve mettere in conto una tempistica che difficilmente può ridursi a pochi mesi. La psicoterapia è un lavoro che richiede fatica e impegno. Tuttavia, è un tipo di lavoro che apre la possibilità di guardare se stessi, il mondo e gli altri con occhi diversi.
(28 Maggio 2024)