È dall’alba dei tempi che l’uomo ha bisogno di raccontare storie. E se gli antichi miti permettevano di spiegare il mondo e di dare un senso agli eventi, le grandi saghe moderne – come Game of Thrones – servono soprattutto a comprendere l’esperienza umana: ci aiutano a “mettere insieme i pezzi” e a creare un senso di sé continuo nel tempo. Anche per questo la ricostruzione di una storia personale è un passaggio fondamentale in psicoterapia.
“Cosa unisce le persone? Eserciti… oro… bandiere? Le storie. Non esiste nulla di più potente di una bella storia. Niente è in grado di fermarla. Nessun nemico può sconfiggerla”. Il finale di Game of Thrones – che molti non hanno apprezzato – contiene in realtà un messaggio profondo: il vero potere non appartiene a chi sa usare le armi, a chi è più ricco o a chi è più astuto; appartiene a chi sa raccontare le storie. A chi sa prendere ciò che accade e, invece che subirlo passivamente o leggerlo secondo i soliti schemi, sa trasformarlo in una storia appassionante, originale e significativa. Non per niente Game of Thrones, una delle saghe più avvincenti dell’ultimo decennio, distribuita in oltre 150 Paesi, nel corso dell’ultima puntata ha tenuto inchiodate allo schermo quasi 18 milioni di persone. Se non è potere questo…
L’importanza delle storie
Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Dagli albori della civiltà l’uomo ha sempre dovuto confrontarsi con il tema del significato. Persino il sorgere e il tramontare del sole venivano spiegati con un racconto o un mito. I Greci, per esempio, credevano che fosse Elio (o in altri casi Apollo) a trainare il carro con il sole lungo l’arcata celeste. In era pre-scientifica, ogni aspetto della vita veniva spiegato con una storia.
Perché gli esseri umani hanno attribuito così tanta importanza alle storie, ai miti e alle leggende? A differenza di ogni altro essere vivente, gli umani sono dotati di 3 particolari aspetti che li distinguono dalle altre specie: la coscienza, il linguaggio simbolico e la cultura. La coscienza è la possibilità di riflettere su di sé, di riconoscersi e distinguersi dagli altri, di muoversi tra passato e futuro nella propria storia. Il linguaggio simbolico permette invece di disancorarsi dai dati di realtà. Ciò significa che possiamo usare le parole per riferirci anche a cose assenti in un dato momento, oltre che per costruire concetti astratti e immaginare realtà alternative.
Immaginiamo allora i primi uomini e il loro senso di vertigine nell’affacciarsi su un mondo tutto da decodificare. Come spiegare l’acqua e il fuoco? Che senso dare ai corpi celesti? Sin dalle caverne, l’uomo ha cercato di elaborare questo disorientamento, per acquisire così un pò di sicurezza. Ma questa sicurezza andava trasmessa, altrimenti ogni generazione si sarebbe trovata al punto di partenza. Si è sviluppata così la cultura, cioè la trasmissione, di generazione in generazione, delle conoscenze ritenute utili per muoversi nella realtà. Le storie sarebbero quindi dei puntelli culturali ai quali gli uomini di ogni tempo possono guardare per cercare soluzioni e spunti, nei quali rispecchiarsi e trovare risposte: in fondo, l’uomo delle caverne e quello dell’era spaziale condividono gli stessi problemi esistenziali di fondo (chi sono? da dove vengo? Che senso ha tutto ciò che mi circonda?). E così Grandi Storie come l’Iliade, l’Odissea, la Bibbia o il Mah?bh?rata continuano a essere, per molti, fonte di ispirazione. Le storie si accumulano, mai si escludono, e ogni tempo ha una o più storie che ne colgono lo Zeitgeist, lo spirito del tempo.
Storie e racconti di oggi, dai pittogrammi a Game of Thrones
Oggi, come nella notte dei tempi attorno a fiamme danzanti, siamo affamati di storie: scaldàti dalla luce dei tablet e dei pc guardiamo continuamente serie televisive o leggiamo saghe letterarie che condividiamo con milioni di altri individui sparsi nel globo. Tra queste possiamo citare Game of Thrones, Harry Potter, Guerre Stellari o le storie dei Supereroi, narrazioni che si sono ormai prepotentemente inserite nel nostro immaginario collettivo grazie alla loro potenza catartica.
Torniamo a soffermarci un attimo su Game of Thrones, che sembra inserirsi perfettamente in questa nostra riflessione (per chi non ha ancora visto la saga e intende vederla, consigliamo di passare direttamente all’ultimo paragrafo per evitare spoiler). In una delle scene cardine dell’ultimo episodio dell’ultima stagione, mentre si sta discutendo su quale personaggio sia più meritevole di diventare Re del Continente Occidentale – da un punto di vista archetipico, il Re è la forza ordinatrice e stabilizzante del mondo, in contrapposizione alle forze distruttive del Caos – Tyrion Lannister suggerisce che il potere supremo venga dato a chi ha la storia più bella. “E chi ha una storia migliore di Bran lo Spezzato? Il ragazzo che cadde da una torre e visse. Sapeva che non avrebbe più camminato, così ha imparato a volare. Si è spinto oltre la Barriera, un ragazzo storpio, ed è diventato il Corvo con Tre Occhi. È la nostra memoria. Il custode di tutte le nostre storie. Le guerre, i matrimoni, la nascite, i massacri, le carestie, i nostri trionfi, le nostre sconfitte, il nostro passato. Chi meglio di lui per guidarci verso il futuro?”
Bran, custode di tutte le storie, ha rinunciato alla propria identità diventando la Memoria del Mondo: non può quindi agire in senso egoistico per sé stesso, secondo la propria storia personale, ma deve farlo in senso collettivo, per il bene di tutti, conoscendo ogni errore del passato e quindi il modo per evitare di ripeterlo nel futuro. In effetti, il miglior Re che si potesse sperare.
Le storie in psicoterapia
La funzione delle storie è quindi quella di dare un senso. Anche oggi, nell’ambito delle professioni sanitarie è fortemente riconosciuto il ruolo delle narrazioni. Noi stessi, infatti, siamo una narrazione, gli eroi di una storia ancora da scrivere, dal passato inizialmente sfocato e mitico che via via diventa più nitido e sfaccettato. La nostra storia mette insieme i nostri ricordi e dà loro un senso: quando la memoria viene progressivamente persa, quando sbiadisce fino a cancellarsi come nel caso di malattie degenerative come l’Alzheimer, anche il Sé scompare lasciando dell’individuo solo un guscio vuoto, un corpo privo di storia.
L’importanza dell’autonarrazione è ben nota in psicoterapia. Michael White, per esempio, ha elaborato la “terapia narrativa”. Questa consiste nel supportare la persona a raccontare e costruire una nuova storia di sé. L’obiettivo è aiutare l’individuo a diventare autore della propria storia. Così facendo non sono più gli altri a definire chi siamo, ma siamo noi stessi a ricostruire e dare senso alla nostra personale avventura. Questo tipo di terapia ha diversi vantaggi:
- Restituisce al paziente la sensazione di essere in controllo della propria vita;
- Permette di sviluppare una nuova visione di se stessi, diversa da quella attribuita dagli altri;
- Permette di vedersi come separati dai propri problemi, che vengono collocati in una nuova cornice di significato;
- Permette di cercare nel proprio passato soluzioni che hanno funzionato e utilizzarle di nuovo.
Nella psicoterapia psicodinamica breve interpersonale di Lemma, Fonagy e Target, a fine percorso si utilizza lo stratagemma narrativo della lettera per rielaborare il percorso fatto. Il terapeuta e il cliente si scambiano una lettera in cui riassumono il contenuto, le emozioni e i cambiamenti nelle sedute per concretizzare i risultati ottenuti e dare un senso di continuità anche dopo la terapia. Riletto a distanza di qualche tempo dalla conclusione del percorso, lo scritto può aiutare a ricordare il percorso fatto e dare costanza alla crescita personale.
Nel filone della medicina narrativa, infine, si usano le storie e la narrazione di se stessi e della malattia con la finalità principale di migliorare la relazione tra medico e paziente e tra quest’ultimo e la sua malattia. In effetti, la malattia a volte può sembrare priva di senso, e colpire una persona e una famiglia in modo improvviso e traumatico. Le storie permettono di rendere la propria malattia una metafora. Il percorso del malato diventa quello dell’eroe, che affronta le mille lotte e avversità per fare ritorno a casa.
Insomma, per dirla con le parole dello psicoanalista Stephen Mitchell:
“Noi siamo le nostre storie, i racconti di quello che ci è successo. Ma non sono solo i ricordi a sostenere il nostro senso di essere persone. Il passato è troppo sfaccettato e pieno di dettagli. Per avere un Sé, abbiamo bisogno di un protagonista, di qualcuno che fa le cose e a cui le cose accadono. Il passato deve essere organizzato in una narrativa, o in più narrative alternative. Senza storie non esiste alcun Sé”.
(19 Giugno 2019)