Storia di un matrimonio (2019): recensione e lettura psicologica del film

Come l'inconscio può distruggere un matrimonio

Storia di un matrimonio (2019): recensione e lettura psicologica del film

“Storia di un matrimonio” (2019) è un film sulle dinamiche psicologiche del matrimonio. A partire dal film, abbiamo cercato di capire come sposarsi e avere figli possa cambiare la coppia e la vita delle persone.

Storia di un matrimonio (titolo originale Marriage Story) è uscito su Netflix il 6 dicembre 2019. È un film scritto e diretto da Noah Baumbach e interpretato da Scarlett Johansson e Adam Driver. Parla soprattutto del percorso di divorzio tra Charlie e Nicole, lui regista di teatro lei attrice, dei loro feroci avvocati, della terapia di coppia, del figlio piccolo Henry e delle cose che si fanno, si dicono e si rimpiangono in una coppia e in un matrimonio. La trama quindi è abbastanza semplice, e se volete saperne un po’ di più c’è un breve approfondimento sul Post che vi spiega perché è un film bello.

Se non avete ancora visto “Storia di un matrimonio” potete continuare a leggere, ma potreste trovare qualche spoiler minore, cioè quelli che non vi rovinano il film ma che alcune persone preferiscono comunque evitare. Ad ogni modo, Storia di un matrimonio serve come punto di riferimento per parlare di matrimonio in ottica psicologica.

Come il matrimonio cambia una coppia

Il matrimonio è un processo dinamico e interattivo, che si configura come uno dei principali eventi critici che una coppia deve affrontare. Il matrimonio infatti implica un cambiamento di contesto e della natura della relazione. La cerimonia nuziale, ad esempio, per quanto simbolica, segnala un’importante linea di demarcazione tra le fasi del ciclo di vita dell’individuo e della coppia.

Secondo la psicologa Marisa Malagoli Togliatti, esperta di interventi in ambito familiare, il matrimonio non implica di per sé che una coppia sia pronta. Prima di arrivare a sposarsi, infatti, i partner sono chiamati ad affrontare compiti di sviluppo individuali precedenti. In particolare, questi riguardano lo sviluppo di una propria identità autonoma e indipendente e lo svincolo dalla famiglia d’origine (sia in termini economici che emotivi). Solo se ciò è avvenuto con successo i partner saranno in grado di avere una relazione matura. Una rapporto di questo tipo, dice la Malagoli Togliatti, si raggiunge passando da una relazione basata sulla soddisfazione dei propri bisogni narcisistici (essere amati e gratificati, non sentirsi soli) a una caratterizzata da comprensione, cooperazione e reciprocità nell’impegno. Sono queste coppie che riescono, con aggiustamenti continui, a costruire un’identità comune stabile nel tempo.

Nicole e Charlie distanti in metropolitana

Quando arriva un figlio bisogna fare spazio

A un certo punto della vita ognuno è chiamato a fare una scelta: continuare a vivere per se stessi, dedicandosi solo a sé e rimanendo al centro del palco, oppure farsi da parte, almeno un po’. Un punto centrale di Storia di un matrimonio sembra proprio questo, la scelta di impegnarsi. Durante la litigata più furibonda e lacerante del film, ad esempio, Charlie rimpiange – salvo poi scusarsi disperato – di aver sprecato i suoi migliori anni in una relazione stabile quando avrebbe potuto avere molte altre esperienze (con altre donne), essendo stato un giovane regista in ascesa in una grande città.

Di solito, in effetti, avere famiglia e figli significa accettare di compiere il passaggio da protagonista della scena a sfondo di qualcun altro. È inevitabile. Le energie utilizzate solo per se stessi e il proprio piacere devono ora essere convogliate nell’accudimento di un essere vivente la cui sopravvivenza dipende da noi. Essere genitori non è una condizione temporanea o reversibile. Sposarsi e avere figli implica allora una rinuncia narcisistica. Bisogna fare posto, creare uno spazio mentale e cercare di risolvere le tensioni che possono emergere dai differenti stili educativi dei genitori. Se il bambino arriva senza trovare spazio, e se non si pone presto rimedio, è possibile che avere un figlio provocherà rabbia, risentimento e fastidio nel genitore, che si sentirà “derubato” di qualcosa. Non a caso, in uno studio recente è emerso che chi si sentiva “pronto” a impegnarsi viveva meglio la relazione, sperimentando maggiore benessere e coinvolgimento.

La genitorialità è una scelta fisiologicamente masochistica, e sarebbe preferibile esserne consapevoli, prima di fare un bambino.

Marriage story parla delle dinamiche di un matrimonio moderno

Il matrimonio come rinuncia

Nel film, Charlie e Nicole sono sposati e hanno un figlio, ma i loro bisogni narcisistici (cioè quelli legati alle proprie soddisfazioni personali) sembrano essere rimasti piuttosto insoddisfatti. Charlie ad esempio, è alla costante ricerca di un’affermazione come regista e il conferimento di un importante premio lo porterà a riversare maggiormente le sue energie sui progetti professionali, sottraendoli alla coppia e alla famiglia. Nicole, d’altra parte, vive una situazione lavorativa paradossale, che la porta a provare risentimento verso Charlie. Tutto ciò finisce per creare attrito nella coppia, perché ognuno imputa parte della propria insoddisfazione all’altro (“per stare con te ho rinunciato a tutto”). Insomma, sembra che l’identità dei due sia intrecciata in un groviglio confuso, fatto di cose lasciate alle spalle, rimpianti e invidia.

Quando i due si confrontano su tutto questo, l’idea iniziale di un confronto costruttivo degenera presto in un’escalation simmetrica distruttiva in cui ognuno dei due accusa l’altro di rappresentare tutte le parti negative delle figure del proprio passato (“sei come mio padre”, “sei come mia madre”).

Come l’inconscio può rovinare un matrimonio

Le relazioni spesso assomigliano a un tritacarne. Amore e sofferenza non sono cose separate, ma due facce della stessa medaglia. Per questo il matrimonio a volte degrada le coppie, amarsi le consuma, convivere le prosciuga.

Questo succede perché sulle persone di cui ci innamoriamo puntiamo la posta più alta. Ci giochiamo tutto. La coppia appare infatti al nostro inconscio come il terreno migliore per risolvere alcuni conflitti interni. In altre parole, ognuno usa l’altro in diversi modi:

  • Cercando nell’altro qualcosa che non ha mai ricevuto nelle relazioni con i genitori (ad esempio amore incondizionato), o che ha ricevuto ma non abbastanza, o che vorrebbe ritrovare;
  • Cercando nell’altro aspetti di sé complementari, ovvero che completano (ad esempio una persona timida che viene attratta da una estroversa);
  • Sperando che l’altro si faccia contenitore delle proprie angosce restituendole più tollerabili (ad esempio la paura della solitudine).

Sembra contraddittorio, ma nelle persone che amiamo tendiamo a sfogare (inconsciamente) la rabbia e la distruttività. Ciò avviene perché è con l’odio che mettiamo alla prova l’amore. Ma perché facciamo così? Da dove viene questa distruttività?

Nicole e Charlie prima del litigio più intenso del film

Da dove viene l’amore/odio

L’amore/odio deriva da una sofferenza inconsapevole legata al fatto di essere vivi, dallo stesso “sapere di esistere”. Quando nasciamo siamo esseri inermi ed estremamente vulnerabili. Nel momento in cui veniamo al mondo e siamo strappati dal grembo materno si incide dentro di noi una rabbia intensa, ancestrale, riflesso della nostra condizione umana. Nel corso della vita e con lo sviluppo delle abilità verbali e di pensiero, ci accorgiamo che il mistero dell’esistenza è inconoscibile.

Chi siamo? Dove andiamo? Perché siamo vivi? Si può impazzire a pensarci troppo. Non sappiamo perché siamo nati, non sappiamo cosa c’è dopo la morte, sappiamo solo che un giorno siamo venuti al mondo e che da questo, un giorno, ce ne andremo. Così come siamo in grado di percepire ancora la radiazione cosmica del Big Bang, anche la nostra psiche è permeata dalla follia. Chiediamo a chi amiamo di pensare insieme a noi, o per noi, una parte di questa incertezza radicale ed esistenziale, che per tutta la vita non smettiamo mai di sperimentare.

Per fortuna riusciamo a gestire questa cosa cacciandola nel profondo, nel buio dell’inconscio. E l’amore ci salva da questa follia, perché dà un senso all’esistenza, finalmente! E chiediamo a chi ci ama: da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Perché siamo vivi? sperando che l’altro conosca la risposta. Come facciamo da bambini quando chiediamo queste cose ai nostri genitori, così crescendo lo chiediamo in modo implicito al partner, all’Altro (la A maiuscola indica un “altro” da noi in senso generico).

Tra estasi e invidia

Charlie e Nicole di Storia di un matrimonio rappresentano in modo perfetto il modo in cui nelle relazioni si oscilli dall’estasi all’angoscia, dalla pienezza al vuoto, dalla gioia alla rabbia. Queste oscillazioni ricordano molto quelle del neonato. Nei primissimi mesi di vita, nella fase di dipendenza totale, il neonato oscilla tra estasi (quando qualcuno lo accudisce) e stati di rabbia angosciosa (quando nessuno si prende cura di lui). Quando riceviamo il nutrimento necessario, insomma, sperimentiamo sentimenti ambivalenti. L’estasi implica l’invidia e la paura. Il nutrimento infatti viene sempre fornito da un Altro (la mamma che allatta ad esempio) e mai da se stessi. Così anche il seno della madre è qualcosa di buono, ma che odio, perché non è mio.

È un po’ complicato da comprendere, ma è una metafora utile per capire le relazioni. Ad esempio, quando amiamo qualcuno, in quell’amore ci sono allo stesso tempo odio e invidia: l’odio dipende dalla possibilità che il partner possa tradirci e abbandonarci, sottraendo il suo amore (nutrimento), l’invidia invece dipende dal fatto che una parte della nostra felicità è delegata a qualcun altro. Allora abbiamo bisogno che l’altro sopravviva alla nostra aggressività. È una questione di fiducia. Quando l’altro sopravvive all’odio disperato ci permette di vivere, di condividere la sofferenza e l’incertezza dell’essere al mondo.

Ecco perché la religione funziona e la fede è un sentimento così forte: Dio si è fatto uomo, noi con il nostro odio l’abbiamo ucciso, ma lui è sopravvissuto alla nostra distruttività, donandoci in questo modo amore e perdono.

Il problema delle proprie ombre

In ogni relazione c’è una parte di noi nascosta, la nostra ombra, che si allunga sull’altra persona, fino a renderla irriconoscibile. I nostri “fantasmi del passato” – quelli di Lucio Battisti in “Il mio canto libero” – cercano di impossessarsi del partner. Questi fantasmi riguardano le nostre paure e tutto ciò che è andato storto nell’infanzia e nell’adolescenza con le figure significative per noi. Quando le ombre si allungano stiamo proiettando qualcosa nell’altro, e nello stesso tempo stiamo interiorizzando gli spettri del partner. Se non ne siamo consapevoli, rischiamo di esserne posseduti. Così, ad esempio, se l’altro proietta su di noi il ricordo di un padre o una madre trascurante, se non capiamo ciò che sta succedendo rischiamo di identificarci con quella rappresentazione, e agire davvero come un padre o una madre trascurante. E a quel punto, forse neanche un esorcista potrà aiutarci. È colpa di un fenomeno chiamato “profezia che si autoavvera” (in psicoanalisi invece si chiama “identificazione proiettiva”).

È per questo che le relazioni sono così complesse. Entrano in gioco meccanismi a volte incomprensibili o perversi e bisogna essere molto preparati, molto forti, capaci di superare lo stress, motivati a lavorare su se stessi. E non ci sono mai certezze, comunque. Le relazioni finiscono, o magari vanno avanti per decenni, ma prosciugano le energie e il benessere delle persone. Insomma, prima si riesce a fare contatto con il mondo sotterraneo dell’inconscio, prima si riuscirà ad affrontare la follia delle relazioni.

Chi aveva detto che l’amore è una cosa semplice?