In “Scheletri” Zerocalcare affronta in chiave thriller il tema della crescita, del cambiamento e della sensazione di inadeguatezza che si prova nel vedere tante cose cambiare (e maturare) attorno a sé…
[In questo articolo ci sono alcuni spoiler del libro]
“Scheletri” è l’ultimo graphic novel di Zerocalcare, noto autore romano di romanzi a fumetti quali “Macerie Prime” e “Kobane Calling” e dei video sulla quarantena disegnati durante il primo lockdown.
Il protagonista di Scheletri è Zero, diciottenne alter ego dell’autore vent’anni fa che, invece di andare all’università, come dice a sua madre, ogni mattina si reca alla metro B di Roma e trascorre lì la sua giornata, osservando i pendolari e fuggendo dal mondo. Qui incontra un ragazzo più giovane di lui, Arloc, con il quale condivide il tentativo di trovare rifugio all’angoscia nel silenzio del treno al capolinea. La loro ruvida amicizia è l’incontro destinato a rompere gli schemi della vita del protagonista e a farlo uscire dal suo stato di stallo.
L’ansia di Zero riguarda solo superficialmente il percorso universitario vero e proprio: quello che il protagonista sente è un ampio e pervasivo senso di non essere adeguato a quel contesto. Zero però si arena molto prima di confrontarsi davvero con libri e piani di studio: ciò che lo mette fuori gioco è la percezione – che sembra inaffrontabile – di essere fuori luogo, escluso “dal gruppo degli studenti scafati”. Fuori dal contesto noto della scuola superiore e dal gruppo protettivo della comitiva, il protagonista si trova a confrontarsi con la sensazione di “essere buttato in una gara di formula 1, quando dovevo ancora andare a scuola guida”. Questo misto di frustrazione, umiliazione e solitudine innesca ben presto un comportamento di evitamento che non fa che peggiorare la sensazione di esclusione e di impossibilità. Tavola dopo tavola, dietro l’umorismo apparentemente scanzonato a cui ci ha abituato, Zerocalcare rappresenta con grande efficacia il “mostrodentro” di tante persone, la cosiddetta sindrome dell’impostore.
Cos’è la sindrome dell’impostore
La prima a parlare di sindrome dell’impostore è stata la psicologa Pauline Rose Clance (1978), che ha identificato il fenomeno in un gruppo di donne di successo, le quali non si sentivano meritevoli del prestigioso ruolo che ricoprivano. Chi soffre della sindrome dell’impostore è a conoscenza di come viene visto dagli altri ma non lo sente vero, poiché percepisce che i meriti che gli vengono attribuiti non sono altro che falsa riconoscenza.
Non stiamo necessariamente parlando di riconoscimenti formali o traguardi accademici, ma anche e soprattutto di qualità affettive. Come succede al protagonista del fumetto, infatti, ciò che genera sofferenza è proprio lo sguardo amorevole e fiducioso dell’altro e la paura di perdere il suo affetto, che chi si giudica come impostore sente di non meritare.
Tutto ciò porta l’individuo a mettere in atto alcune contromisure affinché non venga mai smascherata la sua reale incapacità e il suo grande bluff. Questo porta a perfezionismo e a un controllo maniacale del proprio lavoro, concentrando in modo iper-critico la propria attenzione sugli errori e le relative conseguenze a lungo termine. Lo stress e l’ansia diventano compagni costanti, aumentando notevolmente anche il rischio di burnout.
Si genera in questo modo un circolo vizioso: la persona sente di non meritare i riconoscimenti professionali o personali che riceve e, cercando di non farsi smascherare, aumenta controllo e perfezionismo nel lavoro e nelle relazioni, alzando gli standard da raggiungere e ponendosi obiettivi irrealistici. Il continuo sforzo per soddisfare questi ideali porta ad ansia, frustrazione e vissuti di incapacità. Ciò conferma la percezione di non meritare davvero il successo e i traguardi raggiunti.
Uno degli atteggiamenti più tipici di chi soffre della sindrome dell’impostore è, secondo gli studiosi Kolligian e Sternberg (1991), il ricorso all’umorismo, sotto forma di autodeprecazione in risposta agli elogi e al riscontro positivo da parte degli altri.
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Come modificare le rappresentazioni negative di se stessi
La sindrome dell’impostore è dunque un mix di senso di colpa per i traguardi raggiunti, mancata introiezione del successo, paura della valutazione e sentimenti di indegnità e inefficienza professionale e formativa.
I demoni che affliggono l’animo umano – dice Zerocalcare – “sono molto freddolosi. Se apri la bocca stanno scomodi, se ne vanno”. Invece la vergogna e l’angoscia ci spingono ad evitare di parlarne e di provare a nominarli ma questo equivale “a covarli, farli crescere comodi” fino a quando rischiano di venire fuori in qualsiasi momento “anche alla luce”. È per questo che la psicoterapia è il modo migliore per affrontare i nostri fantasmi e ricondurli al riposo.
In Scheletri è Arloc, il giovane amico del protagonista, a guardare la situazione con occhi più liberi e più realistici (“te c’hai più paura della coscienza tua che de tu’ madre, me sa’”) e a creare le condizioni per le quali “gli spifferi della bocca” comincino a circolare tra i mostri, diminuendone la potenza. In generale, in tutta l’opera, è l’esperienza della relazione di gruppo a svolgere un importante ruolo di protezione e di condivisione di competenze, e i vari membri ricoprono a turno una reciproca funzione di disturbo e di cura.
(11 Novembre 2020)