Che cos’è un contratto terapeutico? Che cosa deve contenere? È davvero utile? È obbligatorio? Facciamo il punto su un tema importante per la psicoterapia sul quale tuttavia non esiste una visione condivisa.
Il contratto terapeutico è un tema tanto importante quanto controverso. Pur essendoci un certo accordo tra i vari specialisti sui suoi fondamenti teorici e la sua applicazione, non esiste una visione unica e condivisa sui diversi aspetti che lo riguardano. Per esempio: che cosa è un contratto terapeutico? Quali sono gli elementi che lo definiscono? È facoltativo o obbligatorio?
Chi ha le idee più chiare è chi usa sistematicamente una forma di contratto scritto, che spesso riguarda solo le questioni logistiche (cadenza delle sedute) e amministrative (pagamento e vincoli in tal senso), in genere appreso nel percorso formativo di specializzazione da una scuola che ne prevede l’uso (storicamente di orientamento psicodinamico, per quanto di recente anche scuole ad orientamento cognitivo l’abbiano incluso tra gli insegnamenti).
Chi usa il contratto terapeutico e come?
Ognuno di noi, nel momento in cui inizia a praticare la professione di psicoterapeuta, si trova a dover decidere se introdurre o meno un contratto terapeutico. A volte consideriamo questa decisione implicita: concordiamo un tariffario e proponiamo al (potenziale, fino a quel momento) paziente di vederci con una cadenza specifica. L’implicito, in questo caso, è l’impegno a presentarsi fino al termine del percorso con la cadenza concordata e che il pagamento sia corrispettivo alla prestazione eseguita. A volte basta questo a fondare una relazione terapeutica costruttiva, soprattutto se gli accordi vengono rispettati da entrambe le parti e se la comunicazione implicita non ha prodotto (per casualità o per cura) equivoci.
Altre volte ci si trova a fare i conti con equivoci o differenti interpretazioni di quel messaggio implicito, spesso riguardanti la necessità di presenza alle sedute per capitalizzare l’efficacia del trattamento o alle modalità con le quali il trattamento verrà portato avanti, elementi che entrano in gioco in modo variabile a seconda dell’aderenza all’accordo iniziale da parte del paziente.
Questo pone un problema significativo di efficacia del trattamento che, tuttavia, prescinde dall’orientamento utilizzato ma risulta piuttosto dovuto a una non sufficiente chiarezza degli elementi in gioco, ovvero le responsabilità reciproche di terapeuta e paziente, gli obiettivi e le modalità in cui verranno perseguiti, cosa che pone un problema anche in termini di adempimento di un consenso realmente informato.
Quali sono gli elementi del contratto?
Il contratto terapeutico sancisce non solo gli aspetti logistici (luogo, cadenza) e amministrativi (pagamento), ma dovrebbe soprattutto definire gli obiettivi del percorso e le modalità con cui saranno perseguiti. Il terapeuta verifica che l’obiettivo del trattamento sia positivo, realistico e moralmente accettabile, avviando una relazione di collaborazione attiva in cui i soggetti sono in una posizione paritaria nel rispetto delle specifiche competenze. Il contratto diventa, in questo senso, l’affermazione da parte del paziente di un cambiamento voluto nei pensieri, comportamenti, sentimenti e atteggiamenti; il terapeuta si applicherà per facilitare tale cambiamento e, una volta ottenuto, l’obiettivo diventerà concordare con il paziente la fine della relazione.
Il contratto stabilisce un impegno reciproco ed esplicito a lavorare insieme; è un invito a mettersi in gioco, a essere entrambi protagonisti della relazione, a mettere in campo le proprie competenze, seppur differenti, e ad assumersi le proprie responsabilità.
Gli aspetti logistici e amministrativi del contratto e tendono a variare anche in funzione del contesto in cui si esprime; in uno studio privato il contratto ha l’obiettivo di definire le modalità di frequenza (o assenza) e il pagamento, tutelando il paziente nella misura in cui garantisce la presenza del terapeuta e tutelando il terapeuta nella misura in cui garantisce il suo onorario, quindi il valore del tempo che dedica, da parte del paziente.
In un contesto istituzionale lo scopo rimane identico: costruire un setting terapeutico favorevole al percorso di cura. Se tuttavia nel contesto privato l’elemento economico/amministrativo e la sua sostenibilità sono arbitrariamente decisi dal terapeuta sulla base delle proprie disposizioni ed esigenze, in un contesto istituzionale lo scopo ultimo non è la sostenibilità economica del singolo clinico ma della struttura stessa.
Questo genera un’esigenza di equilibrio tra gli spazi dedicati alla cura, gli investimenti per il futuro, il ritorno economico soddisfacente per la struttura e gli specialisti che ne fanno parte che aggiunge un ulteriore grado di complessità rispetto al tema della sostenibilità, in particolare rispetto all’aderenza dei pazienti al percorso di cura, ovvero alla loro presenza in seduta.
Come mai i pazienti saltano le sedute e con quali conseguenze?
Dai pochi studi pubblicati sui no-show e sui drop out (Clouse, DeFife e Fenger), emerge che un quarto dei pazienti che accede a un servizio e ha un’indicazione per un percorso psicoterapeutico non lo inizia mai e, tra coloro che lo portano avanti, il tasso di assenza dalle sedute è intorno al 25 per cento (una al mese).
Le ragioni, fornite dai pazienti stessi o desunte dai clinici, sono molteplici:
- difficoltà dovute ai sintomi (per esempio il paziente che, a causa del panico, non è in grado di raggiungere il luogo di cura);
- eventi di vita (imprevisti o riferiti tali);
- problemi di tipo motivazionale (per esempio il paziente ancora non sa se portare avanti o meno il percorso);
- reazioni negative al trattamento (per esempio difficoltà a venire in seduta dopo che è stato toccato un tema “caldo”);
- difficoltà economiche, croniche o temporanee.
Alcuni di questi elementi sono molto importanti dal punto di vista clinico e andrebbero chiaramente trattati in seduta. Le motivazioni potrebbero però avere anche altre ragioni, più legate al contesto culturale: per esempio nel caso del Centro Santagostino di Milano, gli utenti possono considerare la psicoterapia una sorta di servizio a consumo da iscrivere in un ritmo di vita già frenetico, quindi le giustificazioni alle assenze riguardano soprattutto eventi di vita quotidiana, che di fatto segnalano la difficoltà a costruire e tutelare, anche a livello personale, uno spazio di riflessione e cura di sé.
Quali sono, tuttavia, le implicazioni per il clinico o per un’istituzione? Per il terapeuta c’è prima di tutto la necessità di tutelare se stesso e la relazione con il paziente da reazioni negative (frustrazione e rabbia) che possono generarsi nel momento in cui ci si rende conto che le condizioni di trattamento (frequenza in primis) non sono consone, per il paziente c’è la necessità di tutelare le condizioni di riuscita del percorso.
Esistono tuttavia anche questioni legate alla sostenibilità del contesto di cura, sia essa pratica privata o istituzionale: il tasso di assenza dalle sedute dei pazienti, se non gestito, è sufficiente a generare problemi di natura finanziaria allo specialista o all’istituzione? Il rischio è quello, per analogia, di costruire un albergo con cento stanze per poi vederne stabilmente impiegate solo tre quarti. In un contesto ad altissima redditività (quindi con prestazioni molto onerose per il paziente) questo elemento non rappresenta un grande problema ma in un contesto, come quello attuale, in cui sia per gli specialisti privati, sia per alcune istituzioni (come il Centro Medico Santagostino) il tentativo è di rendere l’accesso alla psicoterapia fruibile ai più, sicuramente la questione è prioritaria.
L’assenza dalle sedute ha valenza solo amministrativa o anche terapeutica?
Forse l’elemento cardine del contratto terapeutico, così come utilizzato dai più, riguarda il pagamento delle sedute saltate. La prassi di farle comunque pagare (con diversi margini di manovra a seconda degli accordi presi a inizio trattamento) previene senza dubbio la possibilità di problematiche relative alla sostenibilità del contesto di cura. Ma ha anche valenza terapeutica?
Storicamente la letteratura clinica rispetto alle sedute mancate ha dato un’interpretazione dell’assenza del paziente (soprattutto se comunicata all’ultimo momento) come di una resistenza non consapevole al cambiamento, dunque alla cura, resistenza da affrontare rigorosamente in seduta affinché il paziente possa comprenderla e risolverla. Concretamente, il processo di cambiamento è emotivamente provante, può comportare una fatica che non è sempre semplice sostenere e che può portare in modo più o meno consapevole a prendere le distanze dalla terapia stessa, o definitivamente (interrompendo) o parzialmente (saltando la seduta). Questo comporta un problema di efficacia: è quindi fondamentale e inevitabile approfondire gli elementi emotivamente provanti mentre si verificano nel qui e ora della seduta.
Vale la pena menzionare come la scarsità di letteratura scientifica rispetto al vantaggio terapeutico derivante dal pagamento di sedute saltate vada probabilmente presa cum grano salis, in primis a causa della difficoltà di separare la variabile contratto dagli altri elementi che compongono la relazione terapeutica, la cui valutazione rappresenta una delle sfide più importanti dell’attuale ricerca sul processo e sull’esito.
Che relazione ha con il Consenso Informato e con quali implicazioni?
All’inizio di una psicoterapia, il paziente e il terapeuta definiscono gli obiettivi e le modalità della cura, prendono accordi sulla frequenza e durata delle sedute, fissano i giorni settimanali e gli orari in cui esse avverranno, concordano le rispettive ferie, stabiliscono l’onorario. Questo insieme di definizioni oggi viene chiamato ‘contratto’ e nella prassi costituisce il contenuto del consenso informato e vincola entrambi i contraenti.
La normativa prevede per lo specialista l’obbligo professionale e morale di informare l’assistito riguardo:
- la sua preparazione;
- il suo modo di operare;
- i rischi (eventuali) del trattamento;
- vantaggi e svantaggi.
Nella pratica di tutti i giorni, in realtà, dove spesso capita di vedere in seduta pazienti che già hanno portato avanti e concluso un percorso precedente, l’elemento che colpisce è quanto poco sappiano del tipo di trattamento affrontato, sia in termini di modalità che di obiettivi perseguiti.
Al di là delle intenzioni, dunque, si rischia di porre l’accento sulle variabili amministrative o logistiche senza riuscire realmente a costruire un consenso informato; è lecito immaginare che le difficoltà cliniche siano ancora più ostiche da percepire e affrontare per il paziente se non è in grado di dare loro una cornice, ovvero se non è stato aiutato a costruirsi un’idea del suo processo di cambiamento che includa anche una chiave di lettura di questi aspetti che lo sostenga nella volontà di portarli in seduta e approfondirli (o, per dirla in altri termini, a pensarli e non ad agirli).
In questo senso, il contratto scritto può essere uno strumento prezioso per il paziente fornendogli un punto di riferimento cui tornare, nel momento in cui mettesse in discussione gli elementi concordati.
Vale dunque la pena immaginare che molti elementi che emergono come difficoltà nell’alleanza terapeutica potrebbero essere affrontati con più agio e per tempo se si dedicasse più spazio a una fase di consultazione il cui scopo è co-costruire i presupposti per il trattamento stesso.
In conclusione
- Il contratto è sempre quantomeno implicito nell’accordo con cui comincia un percorso terapeutico.
- Se non si esplicita (meglio in forma scritta), tuttavia, è molto probabile si generino problemi di alleanza terapeutica, quindi di efficacia.
- Esiste una normativa che prevede l’obbligo al Consenso Informato.
- Dovrebbe contenere soprattutto obiettivi e modalità in cui verranno perseguiti.
- Dovrebbe rappresentare la sintesi delle esigenze logistico-amministrative e di quelle cliniche, con lo scopo di tutelare contemporaneamente paziente e terapeuta, ergo la terapia stessa.