Amare sé stessi significa non solo prendersi cura si sé ogni giorno. Può essere soprattutto il primo passo, il punto di partenza per aprirsi alle altre persone.
Imparare ad amarsi è un percorso di crescita personale che permette di accettare ogni cosa di noi, ogni sfumatura, anche i limiti, con rispetto e compassione.
Quanto importa iniziare ad amare sé stessi in modo sano e funzionale, e in che modo è possibile? Le risposte della dott.ssa di Sara Di Croce, psicologa con approccio psicodinamico-relazionale del Santagostino.
Cosa vuol dire amare sé stessi?
Anche se sentiamo spesso questa esortazione, non è facile definire con precisione il concetto di amare sé stessi. Idealmente, questo atteggiamento potrebbe essere descritto come un’esortazione a trattare noi stessi con la stessa disposizione d’animo con cui ci rapportiamo ad un caro amico al quale siamo sinceramente e profondamente affezionati.
I limiti di questa persona cara non ci sembrano qualcosa per cui biasimarlo o condannarlo, ma qualcosa che comprendiamo alla luce della sua storia o del complesso della sua vita. Le sue eventuali mancanze ci sembrano lievi nel bilancio complessivo delle sue qualità e, in ogni caso, ci bastano delle scuse sincere e l’assicurazione di non aver avuto intenzione di ferirci per mettere da parte il nostro risentimento.
Amare sé stessi, una definizione più tecnica
In termini più tecnici l’espressione amore per sé stessi indica un insieme complesso di adeguata attenzione e legittimazione per i propri bisogni o necessità quali:
- un sonno adeguato e una giusta alimentazione, bisogni quindi concreti
- attenzioni di ordine emotivo, attraverso uno sguardo amorevole e compassionevole verso sé stessi e soprattutto i propri limiti.
Come si chiama uno che ama sé stesso?
C’è da dire che non è raro crescere in contesti in cui l’espressione o l’attenzione ai propri bisogni viene duramente condannata o colpevolizzata. Ma un conto è prendersi cura in modo consapevole e responsabile di sé, volendo per sé la propria serenità, altra cosa è agire narcisisticamente.
Capita spesso che le persone, soprattutto a seguito di una delusione relazionale dichiarino, in termini più o meno seri: “Adesso basta, voglio essere anche io egoista e pensare a me stessa!”
Nulla di più fuorviante: l’empatia è infatti un concetto che ha due poli: comprendere profondamente la nostra mente, con le sue legittime esigenze, vuol dire essere in grado di comunicare e trasmettere in modo efficace e affettivo come ci sentiamo.
In questo modo viene innescato un circolo virtuoso di scambio trasparente e potenzialmente più fruttuoso e appagante di mille attenzioni che porgiamo spesso controvoglia all’altro, sentendoci feriti, infelici o trascurati.
Dire la verità con onestà su come ci sentiamo permette di vivere più serenamente sia il rapporto con sé stessi sia quello con gli altri. Anche quando il nostro stato d’animo contiene degli elementi di frustrazione, come quando ci capita di dire frasi quali: “Sono stanca, non mi sento di uscire”, oppure: “Avrei bisogno di aiuto per questo compito”. Questa modalità di comunicazione ci permette di rispettare profondamente il nostro interlocutore e mostrare fiducia autentica nelle possibilità del legame.
Quanto è importante amare sé stessi?
Imparare ad amare sé stessi in modo profondo può davvero essere molto complesso. Molto spesso nell’infanzia sentiamo di dover lottare duramente per ottenere considerazione e amore, reprimendo in maniera estesa bisogni o reazioni naturali. Se ci esprimiamo liberamente subiamo condanne pesanti, o gravi mortificazioni.
È chiaro che più profondamente sperimentiamo sensazioni di questo tipo, più proveremo vergogna e sensazioni di perdita catastrofica alla sola idea di esprimere quello che sentiamo in modo autentico e naturale. Anche la sola idea di tenere un comportamento che riteniamo da condannare risulta ingestibile, così come il rischiare di essere biasimati anche solo da un estraneo.
La sola proposta di impegnarsi a dormire il giusto numero di ore può provocare in alcune persone una tale risposta di angoscia che preferiscono continuare per la loro strada. Una strada fatta di tentativi dolorosi di ignorare il bisogno di dormire. Tra l’altro, questo tipo di ipercontrollo può arrivare a determinare una spirale negativa di regole o un rimuginio troppo rigido che fatalmente porta alla perdita di performance.
Amare sé stessi nello studio come nel lavoro
Due ambiti nei quali una simile situazione è molto comune sono lo studio e il lavoro. Più è violenta e intransigente la regola di ‘assolutamente non distrarsi’, più ogni fisiologico calo dell’attenzione sarà oggetto di aspre critiche interne. Oppure condurrà a condotte di riparazione eccessive, espresse da pensieri quali: “Ora studierò anche domenica”, o propositi quali: “Mi alzerò due ore prima”.
In molte persone queste condotte portano fatalmente ad una riduzione della performance. Si tratta inoltre di condotte che possono essere applicate ad esempio al cibo, all’aspetto fisico, all’ambito relazionale. Condotte che possono essere causa di molti problemi e nel vissuto di chi le attua.
Se invece una persona riesce ad avere verso sé stessa un’attitudine fiduciosa e amorevole – parlando con frasi quali: “Ok, ti sei distratto, ma cosa puoi fare per migliorare? Cosa ti ha distratto?” – si offre maggiori possibilità per studiare un repertorio di strategie flessibili e articolate che consentano di risolvere eventuali problemi o carenze. Così da poter raggiungere una migliore autostima, un senso maggiore di efficacia e una serenità generale.
Come darsi affetto da soli?
Potenzialmente, ogni gesto di attenzione verso i nostri bisogni o inclinazioni può rappresentare un modo per avere cura di sé stessi. Incluse quelle parti che allontaniamo perché consideriamo meno desiderabili o meno importanti delle altre.
Un po’ come succede alla protagonista del romanzo di Chiara Gamberale intitolato Per dieci minuti, pubblicato nel 2013. Chiara, questo il nome della protagonista della storia su indicazione della sua terapeuta per dieci minuti al giorno, prova a fare una cosa nuova, una qualsiasi, mai fatta prima. Questo esercizio, nella sua banalità apparente, innesca tutta una serie di cambiamenti fuori ma soprattutto dentro la protagonista.
Una risposta dalla mindfulness
Il vero punto però non è in cosa facciamo, o cosa non facciamo. Piuttosto sono l’intensità e l’aggressività con la quale giudichiamo noi stessi per quello che facciamo o non facciamo. In questo senso una delle pratiche più utili risulta essere la mindfulness.
Attraverso la mindfulness, che può essere tradotta in italiano con le parole consapevolezza o presenza mentale, ci alleniamo a far emergere immagini, sensazioni o pensieri sforzandoci di silenziare il giudizio, o almeno il giudizio più istintivo o immediato.
Se invece la severità o l’aggressività dei pensieri critici verso sé stessi è tale da rendere impossibile o limitare fortemente le attività quotidiane, vale la pena indagare tramite la psicoterapia su come abbiamo costruito questa tendenza al giudizio e come abbiamo interiorizzato questa idea negativa di noi.
(14 Settembre 2022)