La Regina degli Scacchi ha avuto un grande successo subito dopo la sua uscita. Forse anche perché storia di Beth Harmon fa riflettere sulle emozioni e sul concetto di alessitimia, l’incapacità di riconoscerle e regolarle.
Tratta dall’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis, la serie Netflix “La Regina degli Scacchi” racconta la storia di Elisabeth Harmon (Beth), una ragazza rimasta orfana a nove anni che raggiunge un successo incredibile nel mondo maschile degli scacchi.
Nonostante la carriera brillante e le gratificazioni, però, Beth è una persona bloccata dai propri traumi e fatica ad entrare in contatto autentico con gli altri. Si muove nel mondo con grazia, ma anche con estremo distacco, misteriosa e lontana, estranea come un’aliena.
Se da un lato la personalità evitante e la freddezza emotiva la rendono audace e determinata, dall’altro queste caratteristiche le impediscono di regolare le proprie emozioni, se non attraverso l’abuso di alcol e stupefacenti.
Quando non può controllare se stessa e gli altri come le pedine in una scacchiera, Beth entra in crisi. L’unico mondo che può dominare e in cui si sente a suo agio è quello degli scacchi.
Proprio alla soglia della sfida finale con Borgov, Elisabeth manda all’aria i suoi piani per trascorrere una notte di divertimento, tanto da arrivare alla partita ancora ubriaca. Sembrerebbe una reazione al timore di perdere, di non essere all’altezza di una sfida così importante, fantasticata da tutta la vita.
Eppure c’è qualcosa di più.
Durante la partita di Beth con un giovanissimo sfidante di soli 13 anni. Quando lui le rivela il suo grande sogno di diventare campione del mondo a 16 anni, lei ribatte: “Se vincerai, dopo cosa verrà? Se vinci i mondiali a 16 anni, cos’altro ti rimarrà da fare?”.
Di fronte al piccolo sfidante, in cui forse Beth riesce ad identificarsi e provare tenerezza, può avvicinarsi al cuore della propria sofferenza. Negli scacchi ha trovato riparo alla solitudine, al ricordo degli occhi della madre mentre guidava la macchina verso la morte, all’impotenza e al senso di umiliazione della casa adottiva… una volta vinta l’ultima gara, cosa ne sarà di lei?
L’alessitimia: l’incapacità di riconoscere le emozioni
Il termine alessitimia deriva dal greco “Alexis thymos”, che letteralmente significa “non avere parole per le emozioni”. I soggetti alessitimici hanno difficoltà a tradurre le esperienze corporee in rappresentazioni mentali. Per fare un esempio, quando una persona alessitimica sperimenta l’attivazione corporea tipica di un’emozione, non riesce ad attribuire l’etichetta verbale corrispondente a quell’attivazione (ad esempio “rabbia” quando serrano i pugni, o “paura” quando la frequenza cardiaca accelera).
Come si sviluppa l’alessitimia
Fin dai primi mesi di vita, il bambino cerca di comunicare al genitore le proprie emozioni. Gli stati indifferenziati di soddisfazione e disagio del neonato si differenziano gradualmente in una complessa gamma di emozioni specifiche. In questo modo, le emozioni si esprimono sempre meno sul piano corporeo e sempre di più su quello verbale.
Quando nel secondo anno di vita il bambino acquisisce la capacità rappresentativa e di linguaggio, ciò influenza in modo profondo la capacità di identificare e regolare gli affetti, sia a livello personale che nelle relazioni con gli altri.
Il genitore ha la funzione di “metabolizzzare” gli stati affettivi del suo bambino, soprattutto quelli più disturbanti. Laddove questa funzione è molto carente, le emozioni non sono trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero, ma rimangono percezioni, sensazioni e impulsi ad agire. Questa difficoltà rappresentativa aumenta il rischio di disturbi psicosomatici e comportamenti impulsivi.
Per stare bene accogliamo le emozioni
La capacità di padroneggiare le emozioni è un requisito fondamentale per riuscire a concentrarsi, trovare motivazione e controllo di sé. La motivazione, a sua volta, è il motore che spinge a raggiungere uno scopo ed è un requisito indispensabile per gestire le frustrazioni.
Quando le emozioni negative sono troppo intense, queste fanno convergere l’attenzione dell’individuo sulle proprie preoccupazioni, interferendo negativamente con i suoi tentativi di concentrarsi.
Tuttavia, insieme alla capacità di posticipare le preoccupazioni, è altrettanto importante sviluppare la capacità di soffrire bene. Quando ignoriamo a lungo le emozioni, infatti, queste ci “presentano il conto”, ad esempio attaccando il corpo per ottenere l’attenzione consapevole e producendo in tal modo sintomi psicosomatici.
Per uscire da questo circolo vizioso è importante iniziare a conoscere meglio se stessi e allenarsi a monitorare le proprie emozioni. Infine, può essere utile sviluppare curiosità verso la propria infanzia. In che modo la nostra famiglia trattava le emozioni difficili? Cosa succedeva se eravamo molto arrabbiati o molto tristi?
Spesso nei primi anni di vita si nascondono le radici di disagi psicologici e sofferenze attuali. Un percorso di psicoterapia può aiutare a gestire meglio le proprie emozioni più intense.
(21 Dicembre 2020)