Kintsugi: l’arte di rendere preziose le “ferite”

Una tecnica giapponese usata per riparare le ceramiche può aiutare a superare traumi esistenziali

Kintsugi: l’arte di rendere preziose le “ferite”

Non solo mindfulness. L’Oriente fornisce importanti contributi alla psicoterapia anche attraverso l’arte. È il caso della tecnica del Kintsugi, che insegna a trasformare i momenti di crisi in opportunità per la crescita. Ma anche dei dipinti giapponesi, che mostrano come non spaventarsi di fronte al “vuoto”.  

La concezione estetica asiatica, sviluppata nell’arte e nella filosofia orientale, si basa soprattutto sull’osservare le esperienze che viviamo con uno sguardo aperto, dolce e contemplativo. Non è una cosa semplice, per noi occidentali, capire i principi della contemplazione, anche se abbiamo cominciato a conoscerli attraverso la pratica della mindfulness, molto utilizzata in ambito terapeutico. Un altro esempio, meno noto, è il sodalizio artistico che si è creato tra la “ceramica raku” (che subisce una lavorazione particolare, basata sullo “shock termico”) e la tecnica del Kintsugi (letteralmente “riparare con l’oro”), che consiste nel ricostruire oggetti rotti o fratturati con materiale prezioso, l’oro di solito, unito a un collante naturale (farina e acqua). Nel Kintsugi, “il gesto riparativo, l’arte dell’attesa attesa, della precisione e della pazienza” dona ancora più valore al manufatto, che da oggetto di uso comune diventa un oggetto “artistico”. In altre parole, l’oggetto non viene gettato via  – come spesso accade quando rompiamo qualche cosa – ma acquista una nuova qualità, che lo arricchisce e ne accresce il valore estetico.

Il Kintsugi in arteterapia

In arteterapia, il Kintsugi è una tecnica dal potente valore simbolico: sottolinea come la cura amorevole e paziente delle ferite provocate da traumi esistenziali possa non solo permetterci di guarire, ma renderci in qualche modo più “preziosi”. E non è certo un caso che l’arte che ripara e dona valore alle nostre ferite provenga dal Giappone, terra che si è trovata a fronteggiare catastrofi nucleari ed eventi naturali incontrollabili: l’importanza di mettere insieme i propri cocci e continuare a vivere e è un’allegoria della vita, semplice ma tutt’altro che banale.

Una persona che attraversa un momento doloroso e drammatico è aiutata dal terapeuta non solo a rimettere insieme i pezzi e a valorizzare le proprie e cicatrici, ma anche a superare il “punto di rottura”, ossia ad andare oltre attraverso l’atto creativo. Il gesto di entrare in contatto con la materia e riparare l’oggetto restituendogli una forma e un nuovo valore  diventa così un percorso parallelo che accompagna e rinforza la guarigione dal trauma e la crescita personale.

L’importanza del vuoto  

L’interesse che noi occidentali nutriamo per il mondo orientale non è solo una moda contemporanea: già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, molti pittori Impressionisti – tra cui Van Gogh, Monet, Manet, Degas e Renoir –  si innamorano dell’arte dell’Estremo Oriente, e in particolare di quella “pittura dal gesto spontaneo e immediato”. Questo amore per un’arte che dà importanza al “vuoto” tra le forme fu chiamato Giapponismo. Nella storia dell’arte occidentale, invece, lo spazio vuoto ha sempre avuto valenze negative. C’è sempre stato un vero e proprio horror vacui: la tela doveva essere ricoperta di colore, gli elementi distribuiti nello spazio con perizia, rispettando i canoni del manierismo e della prospettiva. Solo Leonardo da Vinci (nei  suoi taccuini) e Michelangelo (nelle sue opere più tarde, come la Pietà Rondanini o gli Schiavi) si sono spinti così avanti, osando lasciare le opere incomplete, anticipando le avanguardie moderne.

Nella pittura dell’Estremo Oriente, invece, il vuoto non è il nulla ma è un “principio generatore”, poiché è proprio dal vuoto che tutto si manifesta, dando poi forma al dipinto. Così come accade nella filosofia Zen e nei training di mindfulness, il pensiero acquista il respiro e, gentilmente, si adagia e si acquieta, creando spazio tra le idee caotiche che affollano la mente e riportando l’attenzione al qui e ora. Allo stesso modo il morbido pennello dell’artista giapponese si immerge nella china e lentamente si distende sulla pergamena di riso,  ritraendo i fenomeni come raggiungono gli organi di senso: il reale viene accettato in maniera diretta, senza giudizio. Spesso, sulla carta, il tratto della pennellata si interrompe per lasciare spazio all’immaginazione: suggerisce le forme, piuttosto che delinearle completamente. L’opera risulta così aperta, è colui che la osserva che la completa con lo sguardo.

Che cosa ci insegna l’arte giapponese

Dall’arte giapponese provengono quindi importanti contributi per la pratica psicoterapeutica. Spesso i pazienti tendono ad attribuire alla crisi e al senso di distruzione che ne consegue un valore solo negativo: il percorso terapeutico permette di capovolgere l’esperienza dolorosa in un momento di crescita che, “riparando la frattura con l’oro”, tiene di nuovo insieme i pezzi e dona una nuova forma, più ricca della precedente. Inoltre aiuta a comprendere che per cambiare e diventare quello che vogliamo essere può essere necessario passare attraverso un disagio, una “rottura”.

I dipinti giapponesi, invece, aiutano a superare la paura del vuoto e della solitudine, tipica delle nostre vite occidentali, e avvicinano alla semplicità e alla consapevolezza del qui e ora. Mentre, per secoli, l’arte occidentale si è sforzata di conferire ai suoi soggetti una realtà più intensa, carica di simbolismi e intellettualismi, il tema di tutte le arti zen è la vita senza un obiettivo precostituito e strutturato. Come nella pittura giapponese, è proprio la direzione del nostro sguardo a donare il vero senso alle cose che per noi sono importanti. Lo stesso Van Gogh diceva: “Invidio ai Giapponesi la grande chiarezza in tutto ciò che fanno. Le loro opere sono semplici come il respiro”.