La disforia di genere identifica un’incongruenza tra sesso di nascita e identità di genere da cui deriva un malessere psicologico.
Questo concetto, introdotto nella quinta e ultima edizione del Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali (DSM-5), sostituisce la precedente terminologia “disturbo di identità di genere”, segnando un’importante svolta nella considerazione di questa condizione.
La nuova definizione, infatti, non presume uno stato intrinsecamente patologico, un disturbo mentale, ma si sofferma piuttosto sul disagio psichico che deriva da questa situazione clinica, sottolineando la necessità e la volontà di migliorare la comprensione nei confronti di chi la vive.
Approfondiamo allora il significato di disforia di genere, il modo in cui si manifesta e come può essere affrontata.
Che cosa si intende con disforia di genere?
Il termine “disforia di genere”, così come descritto nel DSM-5, sta a indicare tutte quelle condizioni di sofferenza psichica causate dalla sensazione di un mancato allineamento tra il sesso di nascita, altrimenti detto sesso biologico, e l’identità di genere.
L’individuo che presenta una disforia di genere è dunque quello che non si riconosce nel sesso che gli viene assegnato alla nascita e si sente come intrappolato in un corpo estraneo, manifestando malessere depressivo, disturbi d’ansia o alterazioni funzionali.
Ma cosa significa mancato allineamento tra sesso biologico e identità di genere? Per comprendere a fondo le implicazioni di questa condizione, iniziamo con il chiarire alcuni concetti fondamentali.
Identità sessuale, identità di genere e disforia di genere
Che differenze ci sono tra identità sessuale, identità di genere e disforia di genere?
È possibile definire l’identità sessuale come l’intersezione o la costruzione di diversi fattori che creano la specificità di ogni individuo e che portano a percepirsi come un essere sessuato.
L’identità di genere può invece essere intesa come percezione di sé, una percezione univoca e duratura nel tempo, che fa propendere per l’appartenenza al genere maschile, al genere femminile o verso una situazione di ambivalenza.
Questi concetti richiamano a loro volta due costrutti diversi, sesso e genere:
- il sesso indica la condizione biologica (genetica, anatomica, ormonale) di una persona. Si può parlare di maschio, femmina o intersessuale
- il genere è la percezione soggettiva, mediata da variabili psichiche e culturali, di appartenere a uno specifico sesso, maschile o femminile, oppure a declinazioni intermedie o mutevoli.
Cisgender, transgender e le altre declinazioni del genere
A lungo, identità di genere e identità sessuale sono state fatte coincidere. Questo è accaduto per una sorta di “pigrizia psicologica”, da cui è derivata una cultura che ha definito soltanto due generi, maschile e femminile, e li ha fatti corrispondere ai due sessi biologici.
Negli ultimi decenni, tuttavia, si è verificato un cambiamento di prospettiva. Si guarda al genere come a una scala di sfumature, non riducibile a una distinzione netta tra maschile e femminile, ma assimilabile a uno spettro di declinazioni. Di qui il riconoscimento sempre maggiore nei confronti di individui che non rientrano, o non vogliono rientrare, nella polarizzazione tra maschio e femmina.
Oggi per descrivere le modulazioni del genere si ricorre ai termini:
- cisgender: soggetti in cui identità di genere e sesso biologico corrispondono
- transgender: persone che non si riconoscono nel ruolo sessuale-sociale assegnato loro alla nascita. Accanto a questa definizione vi è il termine “transessuale”, che indica un soggetto che sta attraversando un percorso di transizione verso l’identità sessuale e sociale che più sente come propria
- non binario: persone che rifiutano la dicotomia maschio-femmina e hanno più di un’identità di genere al contempo o in momenti diversi
- genderqueer: soggetti con un’identità di genere non strettamente maschile o femminile che possono rivedersi in entrambi o in nessuno dei due
- agender: individui che non si riconoscono in alcun genere particolare.
La considerazione dell’identità di genere come una costruzione non classificabile binariamente è condivisa anche dai professionisti della salute mentale che tengono conto di precise linee guida per la pratica psicologica con persone non binarie; nonché testimoniata da studi come quello condotto su persone olandesi che, intervistate sul tema della identità e disforia di genere, hanno affermato di non riconoscersi in definizioni di genere e di ruoli in senso binari, ma piuttosto di ambivalenza e varianza di genere.
Come capire se si ha la disforia di genere?
Ma cosa significa essere disforico? Quali sono i sintomi che caratterizzano la disforia di genere?
Da un punto di vista clinico è possibile distinguere diverse sfumature che esprimono un mancato allineamento tra sesso e identità di genere. Sfumature che possono essere variegate e che solo in parte possono essere classificate come vera e propria disforia di genere.
La disforia di genere può presentarsi durante l’età evolutiva, ma il suo percorso non è sempre lineare. Ad esempio, può emergere intorno ai 2-3 anni, quando cominciano a comparire i cosiddetti indicatori, ma questi non possono essere considerati criteri diagnostici definitivi. In alcuni casi, può presentarsi tra i 3 e i 5 anni, per poi scomparire temporaneamente e ricomparire durante l’adolescenza, rendendo difficile una diagnosi definitiva della disforia di genere in età evolutiva.
È importante sottolineare che il fatto che un bambino giochi con una bambola, preferisca indossare abiti del sesso opposto o si rifiuti di giocare a giochi destinati al proprio sesso di appartenenza non implica necessariamente un’identificazione con il sesso opposto. Durante l’età evolutiva l’identità si sta formando, quindi è impossibile prevedere se queste preferenze perdureranno nel futuro.
Anche in fase preadolescenziale è naturale provare dubbi rispetto al proprio corpo o alla sessualità. Queste incertezze possono essere transitorie e non sempre indicano la presenza di una disforia di genere.
Come viene diagnosticata la disforia di genere?
Quando si può parlare allora di disforia di genere? Per poter diagnosticare la disforia di genere è necessaria una marcata incongruenza tra il genere espresso e il genere di appartenenza, con una durata di almeno 6 mesi.
Nei bambini possono essere comuni:
- persistente affermazione di essere dell’altro genere
- desiderio di potersi svegliare come l’altro genere
- predilezione per giochi tradizionalmente associati all’altro genere
- tendenza a fingersi dell’altro sesso durante il gioco
- preferenza per compagni di giochi del sesso opposto
- tendenza a vestire gli abiti dell’altro sesso
- forte avversione per la propria anatomia.
Negli adulti sono invece solitamente presenti:
- incoerenza tra il genere manifestato e le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie di appartenenza
- forte desiderio di sbarazzarsi delle caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie a causa dell’incongruenza con il genere espresso
- bisogno di appartenere all’altro genere e ottenerne le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie
- necessità di essere trattato come membro dell’altro genere
- certezza di avere emozioni e reazioni caratteristiche dell’altro genere.
In aggiunta, questa condizione deve provocare un disagio clinicamente rilevante e/o influenzare negativamente il funzionamento sociale, lavorativo o interpersonale della persona.
Come si è visto, le modalità con cui può evidenziarsi una disarmonia tra sesso biologico e identità di genere sono numerose e sfumate. Per questo, una catalogazione rigida o il porsi domande come: “Quanti sono i generi sessuali?” è fuorviante e concettualmente errato.
Una simile complessità di scenario è stata il banco di prova del DSM-5, uscito in edizione italiana nel 2014, a circa un decennio dal DSM-4. L’obiettivo da raggiungere non era semplice, perché da un lato c’era l’urgenza di ridurre lo stigma e l’impatto negativo sulla salute delle persone transessuali, dall’altro la necessità di conservare un inquadramento diagnostico, al fine di garantire a queste persone l’accesso alle cure mediche.
Approfondiamo le novità contenute nel DSM-5.
Diagnosi della disforia di genere: dal DSM-4 al DSM-5
Laddove nel DSM-5 si parla di disforia di genere, nel DSM-4-TR si parlava di disturbo della identità di genere. La perdita della parola “disturbo” a favore del termine “disforia” evidenzia quindi il disagio soggettivo che viene provato dalla persona, escludendo ogni implicazione di giudizio. Il punto di osservazione non si concentra sull’idea di identità di genere disturbata, ma sul disagio provocato dalla incongruenza tra il genere percepito, vissuto, e il dato biologico.
La disforia di genere si allontana dalle parafilie e dai disturbi sessuali. E proprio questa modifica stabilisce il passaggio della diagnosi da una sfera comportamentale, sessuale e disturbata, a una dinamica più vasta. Una dinamica che interessa l’identità e la personalità del soggetto nella sua totalità.
Nella definizione di disforia di genere, il DSM-4-TR adottava la parola “sesso”, mentre il DSM 5 utilizza correntemente, e in via definitiva, la parola “genere”. Questa sostituzione indica uno spostamento di attenzione verso più aspetti diversificati, rispetto al semplice dato comportamentale.
Nella diagnosi di disforia di genere, l’orientamento sessuale è stato eliminato dai criteri specificati. Questo secondo cambiamento non rappresenta un dettaglio secondario, dal momento che prende atto del fatto che l’orientamento sessuale non rappresenta un predittore di outcome. In passato si pensava che questo fosse un predittore favorevole (per chi si sottoponeva a un cambiamento chirurgico del sesso). Ora questa idea è smentita dalla ricerca.
Una terza modifica significativa è l’aggiunta dello specificatore DSD, disturbi dello sviluppo sessuale. Questa aggiunta porta con sé l’idea di tutela del paziente anche dai rischi iatrogeni, ovvero dovuti alla terapia. In non poche occasioni, purtroppo, le storie di intersessualità comportano questi rischi.
Come affrontare la disforia di genere?
Il trattamento della disforia di genere non va inteso come una “cura” nel senso tradizionale, ma come un percorso rispettoso e supportivo che guidi la persona disforica verso un’autentica espressione di sé.
Le opzioni per alleviare la sofferenza emotiva o i disturbi funzionali connessi a questa condizione possono includere:
- terapia ormonale di affermazione del genere (somministrazione di estrogeni nei soggetti nati con sesso maschile e testosterone in quelli nati con sesso femminile)
- trattamenti aggiuntivi come terapia della voce
- intervento chirurgico per completare la transizione nel genere prescelto
- percorso di psicoterapia per trattare eventuali sintomi associati, come stati ansiosi o depressivi e identificare le forme di espressione di sé più adeguate per abbracciare la propria identità di genere.
Nel caso di minori, l’impraticabilità di soluzioni come la terapia ormonale o chirurgica, fa sì che la strada privilegiata sia quella di accompagnare i bambini in un percorso psicologico – che coinvolga anche i loro genitori – verso la consapevolezza di sé e l’autodeterminazione.
Come si è cercato di evidenziare, sono stati molti i passi fatti nella direzione di un miglioramento della diagnosi della disforia di genere. L’obiettivo era, ed è, quello di procedere nella ricerca scientifica, ponendo particolare attenzione alle necessità autentiche e specifiche delle persone transgender.
Questo processo non può e non deve essere considerato concluso. Può essere piuttosto visto come una apertura, da parte della ricerca clinica, verso il tema specifico del transgenderismo, con lo scopo di elaborare politiche sanitarie e prassi di approccio alla persona che siano quanto più possibile rispettose, consapevoli e inclusive, e che evitino per il soggetto condizioni di disagio psicologico.
(27 Maggio 2024)