Cresce il numero di ragazzi che sceglie di vivere nella propria stanza e interrompere ogni rapporto con l’esterno. È il fenomeno degli Hikikomori che, nato in Giappone, si sta diffondendo anche in Occidente.
Sono adolescenti o giovani adulti che abbandonano volontariamente la vita sociale per lunghi periodi di tempo, rinchiudendosi nella propria stanza e rifiutando completamente il mondo esterno. Prendono il nome di Hikikomori, dal giapponese “isolarsi”, “ritirarsi”. Il fenomeno, infatti, è stato documentato per la prima volta in Giappone, dove oggi gli esperti parlano di una vera e propria epidemia, che tocca almeno 1 milione di adolescenti (in realtà si ritiene molti di più, viste la reticenza delle famiglie nel denunciare i casi e la sottostima della quantità di ragazze coinvolte).
Italia compresa. Nel nostro Paese i primi casi stanno emergendo nelle grandi città, anche se sembrerebbe trattarsi di forme più blande.
Ma come può essere spiegato questo fenomeno? Si tratta di una malattia mentale che dovrebbe essere inserita nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM)? O è una “sindrome culturale”, legata alle pressioni del sistema scolastico e di quello familiare? O ancora, è soprattutto confinata al mondo degli “otaku”, i giovani appassionati in modo ossessivo al mondo dei manga, degli anime, e altri prodotti a essi correlati?
I primi casi
Già nel 1978, lo studioso Yoshimi Kasahara descrisse le prime manifestazioni in Giappone di questa forma di ritiro sociale chiamata tajkyaku shinkeishou, cioè nevrosi da ritiro, caratterizzata dal ritiro scolastico e lavorativo, in assenza di altri disturbi psichiatrici, come schizofrenia o depressione. Diversi decenni dopo, lo psichiatra Tamaki Sait cominciò a rendersi conto di un preciso quadro di sintomi che ricorreva in un numero sempre crescente di adolescenti e giovani adulti, arrivando a coniare il termine Hikikomori.
Da cosa si riconosce un Hikikomori?
Il ritiro sociale superiore a 6 mesi è il sintomo principale. Non si tratta di un fenomeno netto, “tutto o nulla”, ma di uno spettro molto ampio di sfumature. Nei casi più gravi l’Hikikomori non esce dalla sua stanza né per lavarsi, né per mangiare, rifiutando categoricamente ogni relazione con il mondo esterno, familiari compresi. Svanisce ogni forma di interesse verso l’esistenza in generale, mentre emerge una sorta di repulsione per ogni tipo di attività sociale. La stanza assume un valore controverso, talvolta appare come un luogo di rifugio, altre volte come un luogo di prigionia.
Livelli estremi di confinamento e isolamento si raggiungono quando il ritiro si accompagna ad agorafobia e antropofobia. Quest’ultima è una sensazione di angoscia che si manifesta in situazioni di immersione sociale, in mezzo alla gente o ad altri studenti, o addirittura in compagnia di una singola persona, mentre l’agorafobia è una sensazione di ansia e paura che insorge in presenza di spazi aperti.
Altri sintomi sono umore depresso, pensieri ricorrenti di morte, propositi di suicidio, sentimenti di autosvalutazione e colpa.
Un aspetto molto discusso del fenomeno è quello connesso alla relazione tra l’Hikikomori e il mondo virtuale: generalmente si assiste a un vero e proprio confinamento al mondo dei social network e delle chat virtuali. Le uniche attività a destare interesse sono la navigazione su internet, la lettura dei fumetti manga e le attività creative come la scrittura.
Solitamente i più colpiti sono i giovani di età compresa tra 19 e 30 anni, di ceto sociale medio-alto, che hanno vissuto sulla propria pelle degli episodi di bullismo durante il periodo scolastico.
Molti studiosi concordano sulla prevalenza del fenomeno nel genere maschile: solo il 10 per cento dei giovani colpiti sono ragazze. Altri però ipotizzano che il numero delle donne Hikikomori in Giappone sia significativamente sottostimato a causa degli stereotipi di genere. Infatti, mentre gli uomini sono molto impegnati e attivi nel mondo del lavoro, le donne possiedono uno status di casalinghe che rende l’isolamento sociale femminile una consuetudine piuttosto che un’anomalia.
Gli Hikikomori in Italia
Come si è detto, il fenomeno degli Hikikomori non è un’esclusiva tipicamente giapponese. Risale al novembre 2016 il caso dei 27 studenti bolognesi che hanno abbandonato la scuola per chiudersi in casa: episodio che è stato descritto dai giornali come espressione di una nuova tendenza, quella dei cosiddetti “alunni-fantasma”, destinata a crescere.
Secondo Antonio Piotti, psicoterapeuta del centro milanese Il Minotauro, i primi casi italiani, sporadici e isolati, sono stati diagnosticati nel 2007 e da allora il fenomeno ha continuato a crescere e a diffondersi. “Secondo recenti indagini si parlerebbe di stime che oscillano tra i 30 e i 50 mila casi, presenti soprattutto nelle regioni del nord Italia anche se si registrano richieste d’intervento anche in altre regioni – spiega Valentina Di Liberto, sociologa e presidente del Centro Hikikomori di Milano – In genere, il rapporto tra maschi e femmine è di 5 a 1 e le prime manifestazioni del disagio emergono già nella preadolescenza a seguito di eventi di bullismo, difficoltà nelle relazioni sociali e nella gestione di aspettative e standard sociali troppo elevati”.
La variante occidentale sembra comunque meno pronunciata rispetto a quella giapponese. Il ritiro sociale appare meno marcato e spesso vengono mantenuti alcuni rapporti con il mondo esterno. Valore positivo assume la fuga in rete, che diventa uno strumento di compensazione, piuttosto che di segregazione, consentendo agli Hikikomori occidentali di oltrepassare le pareti della propria stanza.
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Cosa c’è all’origine?
I ricercatori giapponesi hanno formulato varie ipotesi sui fattori all’origine dell’Hikikomori, che sembrano essere riconducibili al sistema familiare, al sistema scolastico e alla struttura della società giapponese e che per alcuni aspetti non sono distanti da quella italiana.
La famiglia di un soggetto Hikikomori risulta spesso disfunzionale nel preparare i propri figli al moderno contesto sociale ed economico. Spesso infatti i padri sono assenti per lavoro e il peso dell’educazione dei figli grava tutto sulle madri. Con un atteggiamento esageratamente protettivo, la madre tende a voler gestire ogni aspetto della vita del figlio, spesso idealizzato e depositario di aspettative elevate. Questo atteggiamento impedisce un suo sviluppo psicologico autonomo.
Anche la scuola è da anni considerata un potenziale fattore scatenante del fenomeno. La società giapponese considera il curriculum scolastico uno dei principali criteri di valutazione delle abilità individuali e dell’importanza sociale. Per questo, gli studenti percepiscono una pressione fortissima fin dai primi anni scolastici, consapevoli che i risultati ottenuti saranno determinanti per entrare in un’università prestigiosa.
Ma non finisce qui: un’analisi attenta dell’infanzia degli Hikikomori ha rivelato una serie di esperienze traumatiche, di scherno o di abuso fisico, legate ad atti di bullismo. Subire atti di bullismo equivale a riconoscere il proprio fallimento nella società e l’isolamento che ne consegue viene esasperato dalla logica del gruppo. La protesta delle vittime si manifesta attraverso il silenzio e una sorta di anoressia sociale.
“Lo psichiatra giapponese Saito Tamaki parla di alcuni elementi in comune tra Italia e Giappone, che possono in parte spiegare la diffusione dei casi nel nostro Paese – continua Di Liberto – In primis, il rapporto di dipendenza che si crea tra madre e figlio e l’iperprotezione materna che frena e a volte blocca la crescita esperienziale dei ragazzi, favorendo meccanismi e dinamiche di regressione che li riportano in alcuni casi ad uno stadio infantile. Con la globalizzazione la nostra visione sociale è sempre più caratterizzata da alti standard competitivi: i ragazzi più fragili non sono preparati ad affrontare le sfide del mondo attuale e sono più esposti alla paura del fallimento. A volte la rinuncia e il ritiro sociale sono favoriti anche dalle aspettative genitoriali sulle prestazioni scolastiche considerate troppo elevate dai ragazzi. Un altro elemento che può impattare sullo sviluppo del disagio è il confronto costante con i modelli estetici “perfetti”, che arrivano attraverso i media o i social network. In genere, i ragazzi Hikikomori pensano di essere brutti, imperfetti e inadeguati rispetto ai canoni richiesti dalla società. Elementi questi che contribuiscono all’isolamento sociale e alla negazione di Sé”.
Prevenzione e riabilitazione
Kazuo Ishida, direttore del Centro di Riabilitazione Takeyama Gakkô di Tokyo, e sua moglie, Mizuho Ishida, sono considerati i massimi esperti nello studio del fenomeno degli Hikikomori in Giappone, e sono impegnati da anni nel definire un programma di riabilitazione in grado di “risocializzare” questi giovani. Si tratta di un percorso riabilitativo complesso che si realizza inizialmente attraverso visite domiciliari, finalizzate a instaurare un primo contatto e che hanno l’obiettivo di condurre l’Hikikomori nel Centro di Riabilitazione, dove verranno stabilite le strategie più appropriate a rompere le vecchie abitudini reclusive e a creare un senso di appartenenza al gruppo. Durante il processo di risocializzazione lo staff del centro e gli studenti stessi diventano i modelli primari per il nuovo arrivato, riempiendo il vuoto creato dall’isolamento sociale e stimolando la formazione di un’identità adulta.
Anche in Italia stanno nascendo centri che si occupano degli adolescenti a rischio attraverso campagne di prevenzione e sensibilizzazione, oltre che programmi di cura. Anche la famiglia ha un ruolo di prevenzione: il dialogo aperto con i propri figli, il ridimensionamento delle aspettative, l’accompagnamento nell’acquisizione di un’identità autonoma sono tutti fattori che favoriscono l’autostima e un sereno inserimento nella società.
“Attualmente, sono ancora pochi i ragazzi che arrivano a farsi supportare attraverso un percorso terapeutico, la sensibilizzazione è fondamentale per aiutare le famiglie a saper riconoscere i primi segnali che portano i loro figli pian piano a ritirarsi socialmente e ad abbandonare la scuola – continua Di Liberto – Se si interviene nella fase iniziale, quando il ragazzo comincia ad assentarsi da scuola, diradare le uscite con gli amici, passare sempre più tempo collegato su internet, si riuscirà a prevenire l’insorgenza di problemi più gravi, che in genere subentrano e si strutturano nella fase dell’autoreclusione totale, e il percorso di recupero sarà molto più rapido ed efficace. Nella maggioranza dei casi seguiti da noi i familiari sono supportati attraverso un percorso parallelo, che li può aiutare nella consapevolezza delle proprie dinamiche comportamentali, che se riconosciute possono cambiare completamente la visione e percezione di sé stessi e del proprio figlio in un’ottica più funzionale ed efficace per il recupero complessivo”.