Le cause psicologiche che determinano un femminicidio sono un fenomeno particolarmente complesso, che si interseca a fattori di carattere culturale e sociale.
Analizzarle, con rigore e chiarezza scientifica, è una priorità ineludibile, per far fronte a un fenomeno che, come mostrano le statistiche in Italia come in Europa, non accenna a diminuire.
Cerchiamo allora di comprendere le dinamiche alla base del femminicidio e in che modo sia possibile prevenirlo con l’aiuto della dottoressa Elvira Simona Solimando, psicologa e psicoterapeuta di Santagostino Psiche.
Che cos’è il femminicidio in poche parole?
Il termine femminicidio inquadra una violenza di genere, una forma di violenza nei confronti delle donne che viene esercitata con l’obiettivo di distruggerne la soggettività dal punto di vista sociale, economico, simbolico e psicologico. Ne sono un esempio i casi di violenza domestica.
Parliamo poi di femicidio quando avviene l’uccisione di una donna, una morte cruenta e perpetrata per misoginia, ovvero quando una donna è stata uccisa proprio perché donna. Questa distinzione tende a sfumare, nell’uso quotidiano e il termine femminicidio viene a sovrapporsi di fatto con il termine femicidio, spesso sostituendolo.
Dov’è più diffuso il femminicidio?
Secondo le stime dell’European Data Journalism Network (Edjnet) e del Mediterranean Institute for Investigative Reporting (Miir), nei 27 stati membri Ue, includendo anche la Serbia, sono stati commessi 3.232 femminicidi tra il 2020 e il 2021. La Lettonia registra il dato più elevato.
Questa, purtroppo, è una stima al ribasso. Non tiene conto di ben 8 paesi dell’Ue (Portogallo, Irlanda, Danimarca, Lussemburgo, Belgio, Polonia, Bulgaria e Romania), per i quali sono assenti dati, ed è inoltre una stima notevolmente lontana dai 6.593 omicidi che risultano essere stati commessi da ex partner o da familiari, secondo una ricerca Eurostat.
Femminicidi in Italia
Una premessa è d’obbligo: in Italia non è disponibile una banca dati ufficiale che, a livello istituzionale, tenga traccia dei casi di femminicidio, per questo è difficile avere una misura reale del fenomeno. Per averne una stima si può fare riferimento ai dati raccolti di volta in volta dal ministero dell’Interno e dagli enti di statistica, come l’Istat.
In Italia, secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2022 il 38,1% delle vittime di omicidi sono state donne.
Sempre esaminando il 2022, l’anno più recente di cui si dispongono dati completi, l’Istat ha riferito che su 126 donne assassinate 106 sono risultate vittime di femminicidio. Una proporzione che conferma in qualche modo quanto registrato negli anni precedenti: nel 2021, i femminicidi ammontavano a 104 su 119 casi di omicidio femminile, mentre nel 2020 si registravano 104 femminicidi su 116.
Per quanto concerne il 2023, è stato appurato che 64 delle 120 vittime totali sono state assassinate dal proprio compagno.
Quanti femminicidi dall’inizio dell’anno 2024?
Secondo i dati dell’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Transcidi di Non Una di Meno, aggiornati all’8 giugno 2024, le donne uccise dall’inizio dell’anno sono 35.
Chi commette il femminicidio?
Per identificare il profilo psicologico dell’uomo che commette un femminicidio, possiamo utilizzare le riflessioni di Margaret Elbow, che in un suo studio del 1977, dal titolo Theoretical considerations of violent marriage, descrive quattro tipi di aggressore:
- controllante, il quale teme la perdita della propria autorità e del proprio dominio, e pertanto esige totale controllo sugli altri membri della famiglia
- difensore, un profilo di uomo incapace di concepire l’autonomia altrui, che vede come una minaccia di abbandono, e per questa ragione sviluppa una dipendenza nei confronti delle donne cui si lega
- chi ricerca l’approvazione e ha bisogno di un continuo rinforzo di autostima dall’esterno, e si abbandona a reazioni rabbiose in caso di critica
- incorporatore che cerca nei fatti un rapporto fusionale con la donna, agendo con violenza in proporzione alla percezione, anche solo presunta, di perdere l’oggetto del suo affetto.
Quasi sempre, il quadro psicologico dell’uomo maltrattatore include quindi un desiderio ossessivo di controllo nelle relazioni, spesso manifestato attraverso un’eccessiva gelosia e la necessità di dominare la propria compagna. Quando l’uomo si sente minacciato dalla perdita di controllo, può reagire con comportamenti violenti, utilizzando la punizione come mezzo per ristabilire il proprio dominio.
Quali sono le cause che portano al femminicidio?
Le cause principali di questo fenomeno risiedono nelle profonde disuguaglianze di genere e in una cultura patriarcale che enfatizza costantemente la superiorità maschile, imponendo la sottomissione delle donne.
Ci sono infatti alcune condizioni che si riscontrano tutte le volte in cui accade un femminicidio. Li possiamo chiamare, per convenzione, fattori di rischio, il cui minimo comune denominatore è la mascolinità tossica.
Con questo termine si indica l’insieme di credenze culturali che porta a considerare la donna come un oggetto privo di identità e di autonomia e, soprattutto, privo del diritto di essere considerato un essere umano, con tutti i diritti che ne conseguono. La donna viene vista esclusivamente in un’ottica di stereotipia di genere.
Le costanti che ricorrono negli episodi di femminicidio sono:
- un grado di scolarizzazione basso
- violenze che l’uomo ha subìto quando era bambino
- violenze domestiche cui l’uomo ha avuto modo di assistere da bambino
- l’abuso di alcol
- una condizione di disparità di genere
- l’avere accettato, come fatto culturale, la violenza e il ricorso alla violenza.
A portare a tragici femminicidi, spesso seguiti da suicidi, ci sono anche possibili disturbi mentali, come depressione grave o schizofrenia. Gli uomini con disturbi di personalità antisociali, borderline o narcisistici possono mostrare un senso di inadeguatezza così intenso da essere spinti a commettere violenza contro la propria compagna.
In ultima analisi, il femminicidio è spesso il risultato di un mix complesso di insicurezze personali, difficoltà nel gestire le relazioni intime e nel controllare i propri impulsi.
L’esposizione alla violenza durante l’infanzia
I bambini esposti ad episodi di violenza in famiglia sono influenzati da ciò che osservano e sperimentano dai modelli adulti che rappresentano per loro le figure di attaccamento. Quando non si accolgono e si risolvono le esperienze traumatiche, queste rimangono impresse e attivano una serie di dinamiche relazionali.
Spesso si osserva una dinamica molto evidente tra vittima e aggressore. Alcune persone imparano a sottomettersi in età precoce, altre imparano a compensare tramite l’aggressività e la violenza. Il comportamento acquisito può manifestarsi in vari modi: obbedire, sottomettersi, compiacere gli altri, incolpare gli altri, aggredire.
Per poter lavorare con queste persone è fondamentale essere consapevoli di entrambe le dinamiche per evitare le prospettive estremiste, identificare e comprendere le dinamiche messe in atto.
Come si riconosce la violenza psicologica?
La violenza psicologica si manifesta attraverso una vasta gamma di comportamenti dannosi che possono causare profondo disagio emotivo e psicologico nella vittima. Questi comportamenti includono offese, denigrazioni, umiliazioni, isolamento sociale, controllo e limitazione della libertà. La vittima riceve infatti costanti insulti riguardanti il proprio aspetto o la propria intelligenza e viene spesso ridicolizzata in pubblico davanti ad amici, parenti o sconosciuti.
Questi comportamenti non si limitano a singoli episodi, ma si sviluppano nel tempo con un crescente livello di gravità. Inoltre, presentano molto spesso un andamento ciclico dove gli episodi di aggressione e vessazione si alternano a momenti di tranquillità e presunto benessere.
La violenza psicologica comprende anche le accuse infondate da parte dell’aggressore, che attribuisce ingiustamente alla vittima responsabilità che non ha. A ciò si aggiungono le minacce di conseguenze dirette nei confronti della vittima, dei suoi cari e della sua cerchia sociale, che rendono la relazione tossica e manipolativa.
Come arginare e prevenire il fenomeno del femminicidio?
Rompere la spirale di violenza fisica, sessuale o psicologica è possibile, ed è innanzitutto un obiettivo culturale. I corsi di perfezionamento sulla violenza di genere, sul femminicidio e sulla violenza intrafamiliare nelle università dimostrano un interesse in questa direzione.
Le donne vittime di violenza hanno la possibilità di rivolgersi ai numerosi centri antiviolenza presenti sul territorio nazionale, nei quali possono ricevere supporto psicologico, legale e logistico.
Molte vittime di violenza spesso hanno poca esperienza di relazioni sicure e sane. Per questo motivo è necessario che si crei una forte alleanza terapeutica tra assistenti/terapeuti e pazienti, che aiuti queste ultime a vedere la situazione più chiara, con sicurezza e rispetto per sé.
Sebbene gran parte delle vittime di violenza sappiano che la relazione in cui sono coinvolte sia potenzialmente pericolosa e dovrebbe essere interrotta, alcune persone possono averne una percezione idealizzata e distorta. Ciò può impedire che siano consapevoli dei segnali di allarme o minaccia e si attivino di conseguenza per proteggersi.
Femminicidio: l’importanza dell’ascolto in psicoterapia
È fondamentale che la terapia crei per le pazienti un ambiente sicuro e protetto e raccolga un’anamnesi dettagliata.
Un aspetto rilevante è che molte vittime sono stanche di raccontare la loro storia. In particolare se hanno percepito negativamente alcune precedenti esperienze.
Molte donne provano ambivalenza in merito a ciò che è accaduto e alla loro decisione. Soprattutto quando non hanno il sostegno della famiglia o le risorse economiche. Nei casi di violenza, è importante contemplare domande nell’anamnesi clinica, che esplorino le difficoltà nel chiedere aiuto.
È fondamentale che l‘intervento terapeutico sia rispettoso nell’esplorare questo tipo di informazioni, così che la donna non percepisca giudizio come persona, o nel caso madre, nemmeno per i suoi comportamenti.
(3 Luglio 2024)