Psicofarmaci: quali sono i rischi e i benefici

Parliamo di psicofarmaci: le categorie in cui si differenziano, i campi di applicazione, gli effetti sull'organismo e le risposte alle domande più frequenti

Psicofarmaci: quali sono i rischi e i benefici

Il ricorso agli psicofarmaci suscita spesso diffidenza in molte persone. Purtroppo chi si trova a vivere una condizione di malessere o disagio emotivo tende a esitare nel chiedere aiuto, poiché teme di essere etichettato come “pazzo”.

Lo stigma che affligge chi soffre una condizione di malessere psichico, oppure emotivo, deriva in molte occasioni dalla paura verso le cure, farmacologiche o meno, che vengono spesso adottate. Non esclusa quindi l’assunzione e l’utilizzo di psicofarmaci.

Chi soffre di stati di ansia può far trascorrere fino a due anni, prima di rivolgersi ad un professionista per un supporto qualificato e di beneficiare, in definitiva, degli effetti terapeutici di questi farmaci.

Bisogna dunque conoscere meglio gli psicofarmaci e il loro utilizzo, così da operare una scelta in piena consapevolezza verso lo stare bene. Anche perché gli psicofarmaci pongono domande cui il professionista è tenuto a rispondere.

Perché stigmatizziamo il disagio mentale

Lo stigma verso il disagio mentale è intrinseco nella nostra cultura, veicolato da:

  • Articoli inaccurati: quante volte un crimine viene attribuito erroneamente a condizioni psichiche aberranti piuttosto che alla natura umana?
  • Film di effetto sugli aspetti più affascinanti (e inquietanti) della psicologia e della psichiatria: chi non ricorda la brillante interpretazione di Jack Nicholson in “Qualcuno volò sul nido del cuculo?”.
  • Banalizzazione e uso improprio della terminologia psichiatrica: ad esempio ora sui social network va di moda definirsi “bipolare”, con un’accezione che nulla ha a che vedere con il “disturbo bipolare” vero e proprio, come in passato succedeva per la schizofrenia.

In psicologia e psichiatria, lo stigma colpisce soprattutto i trattamenti farmacologici, al punto che fino a pochi anni fa, anche alcuni psicologi e psicoterapeuti ne erano influenzati e vedevano in modo negativo un percorso farmacologico associato al trattamento psicoterapeutico, nonostante oggi sia ampiamente dimostrato che tale combinazione dia in molti casi esiti migliori della sola psicoterapia o della sola cura farmacologica.

Quando è necessario prendere psicofarmaci?

Al netto dei principi attivi che caratterizzano le classi di questi tipi di farmaci, classi che saranno passate in rassegna a breve, e tenuto conto delle specifiche patologie che affliggono i soggetti, è possibile indicare delle circostanze che prevedono l’assunzione di psicofarmaci:

  • i sintomi del malessere condizionano in modo significativo la qualità della vita del paziente
  • il lavoro è compromesso dallo stato del soggetto
  • le attività ricreative e sportive, come per esempio il nuoto, non danno sollievo o sono del tutto trascurate
  • le relazioni amicali, e affettive, risultano svuotate o compromesse.

La sofferenza diventa intollerabile, e il ricorso immediato ad alcuni tipi di interventi (semplici cambiamenti di vita, i gruppi di auto oppure mutuo aiuto, un primo tentativo di percorso terapeutico) non sortisce alcun effetto se non entro un arco di tempo compreso tra i 6 e i 12 mesi. Un periodo troppo lungo, durante il quale si rischia di compromettere le condizioni già precarie del soggetto, che spesso anche per vergogna rinuncia al supporto farmacologico o del professionista.

In un simile contesto, lo psicofarmaco aiuta il paziente a raggiungere significativi miglioramenti nel giro di poche settimane, in modo efficace e adatto. E dal momento che il disagio mentale ha diverse radici ed espressioni, bisogna comprendere quali tipi di psicofarmaci siano più adatti alla situazione.

Le categorie di psicofarmaci

Esistono quattro classi di psicofarmaci, o quattro categorie. Questa suddivisione risponde alla loro azione su pazienti affetti da diversi tipi di condizioni: dagli attacchi di panico agli stati d’ansia, passando per la depressione e i disturbi ossessivo compulsivi:

  • gli antidepressivi, usati per disturbi d’ansia e per il trattamento dei disturbi dell’umore, quali la depressione. Si ricordano, nel dettaglio, gli antidepressivi SSRI, ovvero gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. I principi attivi sono: paroxetina, sertralina, citalopram, fluoxetina, fluvoxamina, dapoxetina. Senza dimenticare gli antidepressivi triciclici, adottati ormai come seconda scelta rispetto agli antidepressivi SSRI in ambito di disturbo ossessivo compulsivo e depressione maggiore
  • gli ansiolitici quali le benzodiazepine, i farmaci più assunti al mondo dopo gli antinfiammatori. Sono usati per curare stati d’ansia e indurre sonno (prendendo il nome di ipnoinducenti). Sono presenti in farmaci quali Tavor, Xanax, En, Lexotan
  • gli stabilizzatori del tono dell’umore, impiegati soprattutto nei casi di disturbo bipolare e nei casi di disturbi della personalità con sfumature di aggressività e impulsività. Si possono citare il litio (Carbolithium) usato per prevenire il riacutizzarsi delle fasi maniacali o depressive, e la carbamazepina usata a scopo terapeutico e preventivo per le crisi maniacali. Di introduzione recente, poi, la lamotrigina, sconsigliata durante gravidanza e allattamento.
  • gli antipsicotici, divisi in due tipologie: gli antipsicotici convenzionali (clorpromazina, tioridazina, flufenazina) che bloccano i recettori D2 della dopamina, e gli antipsicotici di seconda generazione (aripiprazolo, clozapina, ziprasidone) per mezzo dei quali i recettori della dopamina vengono bloccati con maggiore selettività. Vengono utilizzati nei casi di schizofrenia e negli stati maniacali dei disturbi bipolari.

Perché abbiamo pregiudizi sui farmaci?

Le ragioni sono diverse. Tra queste:

  • Effetti collaterali significativi delle prime categorie di farmaci approvati per l’utilizzo in psichiatria (cioè i primi antipsicotici e antidepressivi identificati negli anni 50-60),
  • L’utilizzo improprio di alcuni farmaci nei decenni passati (ad esempio l’uso eccessivo di terapie con benzodiazepine, che inducono tolleranza e dipendenza)
  • L’utilizzo fatto da diversi governi nel mondo della psichiatria come meccanismo di controllo sociale-politico (anche in Italia durante l’epoca fascista, ma anche in seguito se consideriamo che la funzione di controllo sociale nel nostro paese è stata tolta alla psichiatria solamente nel 1978 con la legge Basaglia).

Il risultato è che oggi esistono ancora tanti preconcetti sull’utilizzo di farmaci per affrontare le problematiche psichiche. Questo provoca un rifiuto a priori di terapie utili ed efficaci, un ritardo nella richiesta di aiuto, e l’accettazione del trattamento farmacologico come “ultima spiaggia”, cioè solo quando la situazione si è aggravata in misura significativa.

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Gli psicofarmaci sono un “manicomio chimico”?

Il “manicomio”, nel senso stretto del termine, nasceva in Italia nel 1904 con la legge “Giolitti”. Tali strutture erano state create con lo scopo di segregare dalla società individui affetti da patologie psichiatriche, che erroneamente erano ritenute correlate alla pericolosità sociale. Il ruolo della psichiatria era allora soprattutto di controllo sociale, attraverso la segregazione manicomiale e la conseguente esclusione dalla società di persone ritenute non più adatte alla vita di comunità (ad es.empio in seguito a pubblico scandalo, agiti aggressivi, ecc.).

Con l’introduzione della famosa legge 180 (cosiddetta legge “Basaglia”) nel 1978, il ruolo della psichiatria cambia, diventando di esclusiva cura della persona, in analogia alle altre specialità mediche. Tale legge ha sancito inoltre la definitiva chiusura di tutti i manicomi italiani.

È quindi improprio considerare la psicofarmacoterapia una sorta di “contenimento chimico” della patologia psichiatrica. L’uso di psicofarmaci ha infatti come primo e unico scopo, insieme ai molteplici interventi terapeutici complementari, quello di migliorare la qualità di vita del paziente, riducendo e contrastando i sintomi presenti.

In realtà, gli psicofarmaci spesso “liberano” il paziente dai propri sintomi, consentendogli di riprendere le proprie attività quotidiane e le proprie abitudini di vita. Basti pensare ad esempio ai pazienti affetti da disturbo da attacchi di panico, che spesso vedono le proprie autonomie e libertà ridursi progressivamente a causa dei sintomi.

In questi pazienti spesso un trattamento farmacologico appropriato (idealmente affiancato da un percorso di psicoterapia) consente una remissione completa dei sintomi, con progressiva ripresa di tutte quelle attività prima abbandonate a causa degli attacchi di panico, come per esempio guidare, frequentare concerti e luoghi affollati, fare lunghi viaggi in aereo e treno.

Cosa comporta assumere psicofarmaci?

Innanzitutto, è necessario conoscere il meccanismo d’azione degli psicofarmaci. In linea di massima, il termine psicofarmaco non è specifico ma è, al contrario, un termine generico. E con questo termine generico vengono indicati tutti quei principi attivi la cui azione interessa il sistema nervoso centrale. In estrema sintesi, la loro azione influenza, in via negativa o positiva, il rilascio di diverse tipologie di neurotrasmettitori.

In altri termini: non è vero che questi farmaci possano causare un cambiamento del carattere, ma possono agire in modo più specifico e sottotraccia, per così dire, per modulare l’espressione delle emozioni che noi tutti viviamo in modo fisiologico. Stati emotivi quali ansia, tristezza oppure rabbia e aggressività.

Spesso queste emozioni sono espresse in modo esagerato e la funzione degli psicofarmaci è quindi quella di riportare in un contesto fisiologico, tollerabile e malleabile (attraverso anche l’indispensabile ausilio della psicoterapia) queste espressioni emotive.

Quanto dura una cura di psicofarmaci?

La durata della terapia con psicofarmaci non può essere definita da una regola unica, poiché varia a seconda del tipo di disturbo, della gravità dei sintomi e della storia clinica del paziente.

L’approccio più adeguato consiste nell’adottare una gestione personalizzata della terapia, adattandola alle specifiche esigenze di ogni individuo.

Facendo un discorso generale, la stragrande maggioranza dei trattamenti farmacologici in psichiatria ha una durata preventivata minore di 1-2 anni. Ciò vuol dire che dopo questo periodo di trattamento, il farmaco può essere sospeso (in modo graduale, sotto controllo di un medico) mantenendo il beneficio raggiunto, in quanto un trattamento di tale durata consente di stabilizzare gli effetti positivi raggiunti.

Nel caso degli antidepressivi, ad esempio, il trattamento è spesso suddiviso in una fase acuta durante il picco della malattia e una fase di mantenimento. Quest’ultima può variare tra i sei e i nove mesi, durante i quali il paziente continua ad assumere il farmaco per prevenire ricadute e consolidare i progressi ottenuti. Per i casi di depressioni gravi o recidivanti, la terapia potrebbe estendersi per un anno o addirittura più a lungo.

Vi sono poi alcune specifiche patologie psichiatriche – come ad esempio la schizofrenia e il disturbo bipolare – in cui in molti casi è consigliata una terapia farmacologica di mantenimento, che consente di tenere il disturbo ben controllato. In questi casi, però, va sottolineato che è la patologia stessa ad avere un andamento cronico e ad essere presente per tutta la vita del soggetto, essendo in parte dipendente dal corredo genetico del soggetto affetto. Purtroppo, ad oggi, non esistono farmaci curativi in senso stretto per tali disturbi, ma i farmaci attuali consentono ai pazienti affetti da queste rilevanti patologie di mantenere un funzionamento generale ed una qualità di vita soddisfacenti, spesso meno probabili senza trattamento farmacologico.

In generale, la collaborazione tra paziente e medico è essenziale per stabilire la migliore strategia terapeutica e garantire un percorso di cura adeguato e efficace.

Che effetti collaterali hanno?

È fondamentale affermarlo con chiarezza e decisione: i farmaci psichiatrici sono di norma ben tollerati (altro discorso è l’abuso). Possono tuttavia verificarsi degli effetti collaterali, che in ogni caso non superano mai i vantaggi che il paziente ottiene dalla loro assunzione (sotto stretto controllo medico). Bisogna comunque ricordare che gli effetti collaterali non riguardano tutti i soggetti, anche se alcuni pazienti possono essere un po’ più predisposti.

Il principio di fondo delle linee guida, per adozione e posologia degli psicofarmaci, è la scelta del massimo risultato con il minimo sforzo, ovvero dosaggi minimamente alti ma comunque efficaci, accanto al principio del massimo risultato con dosaggi bassi, per poco tempo.

Gli antidepressivi triciclici, specie nell’avvio del trattamento, possono causare disturbi alla vescica, aritmia cardiaca e una certa secchezza delle fauci. Nel lungo termine, potrebbero verificarsi costipazione, disturbi visivi, deliri oppure tremori. Gli antidepressivi SSRI potrebbero a loro volta causare disfunzione sessuale, disturbi del sonno, nausea oppure cefalea.

Effetti collaterali delle benzodiazepine

Nel caso delle benzodiazepine, possono verificarsi condizioni quali sedazione eccessiva, specie quando anche dopo ore dal risveglio il paziente si trova a vivere una sensazione di intorpidimento. Passando alle benzodiazepine a emivita breve, è possibile che si verifichi insonnia da rebound, soprattutto nei casi in cui il paziente abbia sviluppato una dipendenza.

Possono presentarsi altri effetti collaterali comuni quali disorientamento, stato confusionale, riduzione di attenzione e apprendimento, una diminuzione delle capacità mnestiche. Nei casi di dosaggi elevati, le benzodiazepine possono causare sonno profondo, ipotermia e disartria (difficoltà nell’articolare le parole).

Gli psicofarmaci danno dipendenza

Come abbiamo visto, la maggior parte dei trattamenti farmacologici utilizzati in psichiatria ha una durata media di uno-due anni. Dopo tale lasso di tempo, la terapia può essere gradualmente sospesa, con mantenimento del beneficio clinico ottenuto.

Tuttavia, occorre precisare che esistono farmaci utilizzati in psichiatria che possono causare dipendenza. Questi sono le benzodiazepine e le cosiddette z-drug (ad esempio il zolpidem e lo zopiclone).

Solitamente tali farmaci vengono utilizzati per il controllo dell’ansia e per la regolarizzazione del ritmo sonno-veglia.

Vale la pena sottolineare che tali farmaci hanno un effetto sintomatologico, ovvero aiutano a controllare i sintomi senza però rappresentare un vero e proprio trattamento “curativo”. Essi possono essere utilizzati in modo appropriato per un lasso di tempo limitato (qualche settimana, di certo meno di 3 mesi in modo continuativo), quando servono ad affrontare una sintomatologia lieve, che verosimilmente si risolve in modo autonomo in pochi giorni. Ad esempio quando stiamo attendendo l’esito di un esame medico importante e l’ansia secondaria non ci consente di dormire o vivere la nostra quotidianità.

Le benzodiazepine e le z-drug non andrebbero utilizzate in modo continuativo e andrebbero sempre assunte sotto monitoraggio medico.

Infatti con tali farmaci è possibile sviluppare una vera e propria dipendenza, con l’instaurarsi di:

  • tolleranza, cioè l’effetto clinico si ottiene esclusivamente incrementando progressivamente il dosaggio
  • astinenza alla sospensione brusca del trattamento: la sindrome astinenziale da benzodiazepine è caratterizzata da fortissima ansia, quindi somiglia alla sintomatologia per cui spesso si è iniziato ad assumere tali farmaci.

Chi prende psicofarmaci può bere alcolici?

É noto che chi soffre d’ansia e di depressione è maggiormente predisposto al consumo di alcol perché può percepire l’etanolo come una “soluzione” per alleviare la sofferenza associata a queste condizioni.

Tuttavia, durante una terapia con psicofarmaci è fondamentale evitare l’assunzione di alcolici per garantire un corretto trattamento ed evitare spiacevoli complicazioni. Bere alcol mentre si assume psicofarmaci può comportare rischi per la salute, oltre a interferire con l’efficacia dei farmaci stessi e causare effetti collaterali indesiderati.

In particolare, l’assunzione di alcolici in concomitanza con benzodiazepine può portare a profonda sedazione e fenomeni ipotensivi. Alcuni antidepressivi possono inoltre ritardare l’eliminazione dell’alcol, prolungandone gli effetti e rendendo più difficile il suo smaltimento.

Psicofarmaci e terapia, una integrazione vantaggiosa

È importante sottolineare che gli psicofarmaci hanno un’azione principalmente sulla sintomatologia, alleviando i sintomi solo durante l’assunzione, ma non affrontano le cause profonde del disturbo. Per ottenere una vera guarigione è fondamentale coinvolgere la psicoterapia, che si occupa di indagare e trattare le radici del problema.

In circa il 30% dei casi di disagio psichico ed emotivo, gli psicofarmaci possono essere fondamentali, agendo come veri e propri salvavita. In queste situazioni, possono portare notevoli benefici e migliorare significativamente il benessere della persona.

Tuttavia, nel restante 70% dei casi, gli psicofarmaci svolgono solo un ruolo iniziale verso la conquista di un nuovo equilibrio. Potrebbero essere paragonati alla funzione di una stampella: come una gamba ingessata che necessita di una stampella per muoversi durante la riabilitazione, gli psicofarmaci possono essere utili per avviare il processo di recupero. Ma se il paziente desidera ottenere una completa autonomia e risolvere le cause profonde del proprio malessere, è essenziale intraprendere una terapia basata sulla parola.

I benefici della psicoterapia (anche la psicoterapia online), anche quando il paziente si trova nella fase di acuzie del disagio psichico, o quando nelle prime settimane di assunzione i medicinali non hanno ancora sortito alcun effetto, risultano essere molteplici:

  • consapevolezza delle proprie emozioni
  • ordine nelle relazioni tra persone del presente e quelle del passato
  • sviluppo delle capacità di problem solving
  • normalizzazione dell’attività cerebrale

La psicoterapia è, in definitiva, una riabilitazione psicologica che permette di tornare a camminare con le proprie gambe. Gli psicofarmaci aiutano a compiere il primo passo.