La violenza psicologica è un fenomeno che rischia spesso di passare sotto traccia, perché più silenzioso della violenza fisica, e perché le vittime spesso hanno difficoltà nel riconoscerla e correre ai ripari.
In che modo può quindi essere definito e affrontato un abuso psicologico? Quali sono i sintomi per riconoscerlo e quali gli strumenti per contrastarlo? Come lo si può prevenire?
Ce lo spiega la dottoressa Silvia Errico, psicologa e psicoterapeuta di Santagostino Psiche.
Come definire la violenza psicologica?
Quando sentiamo parlare di violenza le prime immagini che vengono alla mente sono lividi, percosse, segni fisici, violenze sessuali e altri episodi che provocano lesioni lievi o gravi sul corpo e nella mente; fatti che caratterizzano una relazione tossica. Tuttavia esistono diversi tipi di violenza, riconosciuti dalla legge italiana e penalmente perseguibili.
Bisogna infatti sottolineare che ogni genere di violenza è un reato perché priva la vittima della propria libertà, fisica o morale, di movimento o di autodeterminazione. Nel momento in cui una persona diviene consapevole di quanto subito, per proteggersi ha diritto di sporgere una querela entro 3 mesi.
In questo articolo ci soffermeremo su quella violenza che resta spesso taciuta, nascosta fra le mura domestiche, nella coppia, negli ambienti di lavoro, a scuola. Una violenza e che si diffonde anche attraverso gli strumenti di comunicazione come i cellulari, internet, e che mette le radici e si rinforza a causa della paura, della scelta del silenzio e di un condizionamento ambientale e culturale.
Il riferimento è alla violenza psicologica che lede la dignità di ogni essere vivente e si caratterizza nell’atto di esercitare un potere, manipolando, umiliando e svalutando l’altro con critiche, accuse, bugie, ricatti e minacce. A tal punto da far soccombere e annullare la vittima.
Quanti tipi di violenza psicologica esistono?
Il primo a parlare di violenza psicologica fu Albert Birdman. Nel 1957 identificò almeno 15 categorie di aggressioni verbali partendo dal tono alto di voce e la scelta di ignorare l’altro, non mostrare empatia ed essere convinti che ciò che si sta facendo sia per il bene della vittima.
Secondo Birdman si può esercitare il controllo in dieci campi fondamentali che permetterebbero l’assoggettamento dell’altra persona:
- controllo della libertà di movimento
- delle frequentazioni
- del comportamento
- dei mezzi finanziari
- dei gusti
- del pensiero
- dello spazio sonoro
- del tempo
- dello spazio fisico
- della comunicazione.
La violenza psicologica può essere esercitata nella coppia, in famiglia, con un figlio o fra amici.
La vittima ha la sensazione di non essere amata, di essere colpevole o di non meritarsi la fiducia o il rispetto né proprio né degli altri.
La violenza del silenzio
La violenza psicologica può essere perpetrata attraverso il silenzio, esercitato per piegare la vittima alla propria volontà. Il maltrattante nega la parola e lo sguardo ignorando l’altro fino a quando quest’ultimo non fa esattamente quanto richiesto. Il bambino o la persona che subisce può vivere questo ricatto con angoscia, paura, rabbia e senso di colpa: non comprende che cosa abbia fatto di così grave.
Il gaslighting
Tra le violenze psicologiche rientra il gaslighting, una tecnica di manipolazione spesso denunciata dalle vittime. Il gaslighter, attraverso frasi, bugie, negazione di eventi realmente accaduti, manipola pensieri e sentimenti del partner o coniuge, tanto da indurlo a dubitare della sua stessa memoria e percezione, a pensare di aver perso la propria salute mentale. Questa pratica può essere descritta quasi come un vero e proprio lavaggio del cervello.
La persona che lo subisce non se ne accorge, ma in modo graduale perde l’autostima e si convince di star male perché il suo carnefice vuole esercitare il controllo e sottometterla al suo volere. Spesso sviluppa così dipendenza, sensazione di depersonalizzazione e perdita del controllo.
Di questo tipo di manipolazione può essere responsabile anche un genitore autoritario o iperprotettivo. Un genitore gaslighter non permette ai figli di sviluppare la propria personalità, li deresponsabilizza facendo leva su un forte senso di protezione, e alimenta in loro il senso di colpa.
In questi casi, il figlio è considerato come una proprietà, privato di autonomia e confini, incapace di ascoltare i propri bisogni e di conoscere e gestire la frustrazione. Spesso è anche esposto a violenza televisiva, senza alcuna forma di filtro o di difesa, o bullismo.
Il senso di lealtà
Tra le forme di violenza psicologica rientra il senso di lealtà. Si riscontra nel caso di genitori separati ma anche tra amici. Viene chiesto alla vittima di schierarsi, di assumere il ruolo di giudice, innescando un senso di colpa e la svalutazione di una parte o dell’altra.
Spesso il senso di lealtà è accompagnato da ricatto: “Se non prendi questa scelta, mi regolerò di conseguenza”, oppure da una delle tecniche descritte in precedenza.
Limite e dipendenza, anche economica
In un quadro di violenza domestica o in un contesto di mascolinità tossica troviamo la vigilanza continua sugli spostamenti. “Dove sei andata? Dovevi essere a casa, io sono tornato e tu eri in giro, ti ho detto che non devi uscire! Una madre non ha bisogno di uscire con le amiche, deve stare con i figli!” o “Che ti sei messa in faccia? Vatti a lavare quello schifo! Da chi ti vuoi fare vedere con quel rossetto?” sono frasi tipiche di uomini che tendono a controllare e trattare le donne come un oggetto di proprietà, e che usano contro di loro violenza psicologica.
Per limitare la possibilità della compagna di rendersi indipendente, un uomo può dire: “Tu sei la mia principessa, non c’è bisogno che lavori, vado io. Tu stai a casa!”. Quando la donna ha necessità di prendersi cura di sé, però, le nega il denaro, la svaluta insultandola, induce in lei senso di colpa e vergogna, la porta a isolarsi, privandola del diritto di libertà e del proprio benessere. Accade così che la donna finisca per obbedire a divieti restrittivi della libertà di pensiero autonomo come leggere un libro o avere un profilo social.
Come si chiamano le persone che fanno violenza psicologica?
In ogni forma di violenza ci sono una vittima ed un persecutore, un carnefice, un maltrattante. Il persecutore è colui che svaluta l’altro, si sente in diritto di giudicare l’altro, esprime forza, rabbia in modo aggressivo, per nascondere i suoi punti di debolezza o per ottenere ciò che vuole.
La vittima è vista come un oggetto da possedere, controllare, criticare, usare e gettare via quando non è più utile ai propri scopi. Vissuti tipici del persecutore sono la rabbia e l’insofferenza: “È colpa tua! Tu sei sbagliato! Io invece la so più lunga di te, quindi farai ciò che ti dico io!”.
Come riconoscere un abuso emotivo?
La vittima di abusi psicologici è convinta di meritare quanto le viene detto o fatto perché nel tempo diviene sempre più fragile, priva di autostima, fiducia in sé. La modalità subìta diventa normalità.
Come si riconosce allora la violenza psicologica? Per prevenire questa dinamica nei rapporti umani è necessario cogliere alcuni segnali che possono essere trasmessi durante conversazioni orali o scritte. Sia ascoltando da lontano sia assistendo ad una conversazione in un ambiente familiare, lavorativo, scolastico, sportivo o destinato alla socialità, è possibile riconoscere frasi e atteggiamenti tipici che svalutano l’essere e il saper fare della vittima, tanto da farla sentire una nullità.
Spie di un abuso emotivo
Subire violenza psicologica vuol dire essere oggetto delle seguenti violenze:
- essere ridicolizzati da soli o dinanzi ad amici, conoscenti, parenti
- vedere sminuiti i propri interessi, hobby, successi, bisogni
- ricevere insulti sull’aspetto fisico, il modo di vestire, di parlare, di camminare
- ricevere umiliazioni, accuse e vessazioni quali: “Sei una stupida! Una fallita!”; “Non vali nulla”; “Non capisci niente”; “Tutto questo è colpa tua”
- essere messi di fronte alla minaccia di ripercussioni
- percepire un senso di colpa, come se tutto ciò che non va dipendesse dalle azioni che si mettono in atto.
Nei casi di violenza psicologica nella coppia, il partner controlla le amicizie e gli affetti. Impedisce di avere un proprio spazio, di socializzare e persino di prendere un caffè al bar in compagnia. L’uomo con bugie e ingiurie tende a isolare la donna persino dai suoi familiari e – altro campanello d’allarme – manifesta una gelosia incontrollata.
In una situazione tipica, la donna si trova con un amico, una amica o un parente e riceve sul telefono una serie di chiamate o messaggi in cui le viene chiesto il luogo in cui si trova, il modo in cui è vestita o truccata. E viene accusata di flirtare o tradire, se non risponde.
Cosa rischia chi viene denunciato per violenza psicologica?
Secondo la normativa vigente, chi viene denunciato per violenza psicologica rischia di essere incriminato per diversi reati. Tra le principali fattispecie rientrano:
- minacce, reato punibile con una pena proporzionata alla gravità della minaccia
- lesioni personali: questo reato punisce chi causa danni alla mente o al corpo di un individuo, con pene commisurate alla gravità delle lesioni, compresa la reclusione da sei mesi a tre anni
- violenza privata, fattispecie che si verifica quando si viola la libertà personale della vittima con violenza psicologica o fisica oppure minaccia. È punibile con la reclusione fino a 4 anni
- atti persecutori o stalking: punisce con la reclusione da un minimo di un anno in su chi – tramite minacce, molestie o altre condotte – induce nella vittima uno stato di ansia o paura prolungato, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita
- maltrattamenti in famiglia: includono le condotte maltrattanti esercitate all’interno delle mura domestiche, compresa la violenza psicologica. La pena base per questo reato varia da tre a sette anni di reclusione e può aumentare se il reato è perpetrato in presenza o a danno di particolari categorie vulnerabili come minori, donne in stato di gravidanza o persone disabili
Come reagire ad una violenza psicologica?
Quando si è coinvolti in prima persona è difficile comprendere che si è una vittima di violenza e che proprio la persona che si ha accanto, che si ama o per la quale si prova affetto, sia il proprio maltrattante. Soprattutto se si è stati educati secondo uno stile autoritario in cui bisognava portare rispetto assoluto ai genitori, o si è maturata vergogna e senso di colpa per non essere abbastanza o per non essere conformi alle aspettative altrui.
Un ambiente familiare in cui si è trasmessa la convinzione che il prepotente vince perché è forte e noi non possiamo fare nulla se non subire in silenzio rende difficile percepire la disfunzionalità. Specie quando alla violenza psicologica, fatta di insulti e aggressione verbale, si affianca la violenza fisica.
Trovare la forza di chiedere aiuto
Il primo vero passo è trovare il coraggio e la forza di chiedere aiuto ad un amico, un parente o un vicino di casa. Riconoscere di essere una vittima, di star vivendo una vita in cui ci si sente tristi, annientati, prosciugati, e in cui si ha l’impressione che non vi sia spazio per i propri bisogni è un processo doloroso e faticoso.
Spesso è impensabile prendere consapevolezza che la persona che ci ama sia capace di farci del male e non voglia la nostra felicità. Per questo motivo spesso è necessario rivolgersi a qualcuno che sappia ascoltare e offrire supporto incondizionato, scegliendo insieme le modalità più efficaci per raccogliere le forze.
Se si prova troppa vergogna, paura del giudizio, si può contattare il 15 22, il numero verde gratuito antiviolenza attivo 24 ore su 24 con la sua rete di operatrici del settore, oppure rivolgersi al centro antiviolenza più vicino. Se non ci si sente sicuri di essere vittime di un abuso psicologico o non ci si ritiene ancora pronti ad avvicinarsi ad un centro, è possibile contattare uno psicoterapeuta, per avere uno spazio rassicurante e non giudicante, in modo da comprendere cosa stia accadendo.
L’obiettivo è trovare insieme tutte le strategie e le risorse per riprendere in mano la propria vita, riscoprire di essere importanti e degni di amore per ciò che si è.
Dalla psicoterapia alla prevenzione
Accanto ai percorsi individuali occorre un lavoro di prevenzione, di educazione alla parità di genere all’interno delle istituzioni, soprattutto quelle scolastiche. Bisogna attivare programmi esperienziali formativo-preventivi capaci di insegnare la parità dei diritti umani, dove i colori, i mestieri, i desideri ed i bisogni sono uguali per tutti i generi, per tutte le età.
Le campagne pubblicitarie o le giornate dedicate al tema non sono sufficienti. Bisogna privilegiare il confronto con gli altri per scoprire che questi modi di utilizzare la parola, i gesti, i silenzi non sono affetto, amore, preoccupazione, ma sono stili educativi e gesti disfunzionali che vanno interrotti ed estirpati alla radice.
(29 Febbraio 2024)