Il concetto di alienazione ha avuto nella storia numerose elaborazioni, assumendo diversi significati in relazione al contesto e alla materia di riferimento.
Con l’aiuto del dott. Andrea De Poli De Luigi, psicologo e psicoterapeuta di Santagostino, scopriamo le differenti accezioni del termine alienazione per poi approfondire quale siano il suo significato e le sue implicazioni in ambito psicologico.
Cosa si intende con il termine alienazione?
Cosa vuol dire alienazione dell’uomo? La parola “alienazione” è usata in contesti diversi con significati differenti.
In generale, possiamo distinguere tre diversi campi di applicazione che identificano l’alienazione rispettivamente come:
- l’impatto su un individuo di determinate – non modificabili – condizioni sociali o ambientali
- dei vissuti parte di una sintomatologia che può, in modi diversi, caratterizzare vari quadri clinici
- un possibile esito di perduranti relazioni patologiche nel contesto del nucleo famigliare.
L’alienazione come impossibilità di adattamento alla realtà
L’uso della parola alienazione in campo filosofico – da Rousseau a Marx fino alla scuola di Francoforte – ha spesso assunto una connotazione politico-sociale.
Le scienze sociali, in generale, approfondiscono l’impatto dell’organizzazione sociale sul singolo individuo. In questo contesto, molti autori si sono occupati di descrivere come un rapporto squilibrato con le proprie condizioni lavorative possa produrre alienazione. Karl Marx, in particolare, ha ritenuto che l’operaio fosse estraniato dalla sua essenza umana poiché costretto in un lavoro ripetitivo e unilaterale che lo vedeva sfruttato e ridotto a mezzo per raggiungere il profitto.
Gli studiosi dell’attualità vedono, nei meccanismi di funzionamento e nei ritmi della società contemporanea, diversi pericoli. Uno dei principali è lo sviluppo di uno stato di smarrimento in un mondo in cui le rapide trasformazioni economiche, tecnologiche e culturali hanno eroso le tradizionali strutture di appartenenza e significato.
In molti – dal filosofo e sociologo Herbert Marcuse fino a film come Fight Club – hanno espresso i rischi di un iperadattamento alle spinte sociali che possono portare a ricercare l’identità e la soddisfazione personale attraverso beni e simboli, e a perdere così il contatto con sé stessi.
D’altra parte, una scarsa integrazione nel tessuto sociale, legata all’eccessiva predominanza della vita online sulla vita offline e alla perdita di luoghi capaci di svolgere una funzione aggregativa, fa sì che vengano meno riferimenti e connessioni interpersonali, favorendo, a determinate condizioni, l’insorgere di esperienze di alienazione.
Cosa posso fare se mi sento alienato?
Rahel Jaeggi, nel libro Alienation del 2014, suggerisce che per superare l’alienazione è cruciale la capacità di identificarsi con le proprie azioni e i propri scopi. Jaeggi sottolinea l’importanza dell’autenticità e del riconoscimento personale nelle proprie attività come elementi fondamentali per una vita realizzata e non alienata.
Questo concetto può essere ulteriormente approfondito considerando la descrizione della coscienza dell’Io proposta da Karl Jaspers nella sua Psicopatologia generale del 1913.
Prendendo spunto dai quattro elementi fondamentali della coscienza dell’Io individuati da Jaspers, è possibile individuare le diverse condizioni da cui può scaturire l’alienazione:
- coscienza dell’attività: l’alienazione avviene quando c’è una disconnessione tra l’individuo e le proprie attività, impedendo una piena identificazione con ciò che si fa
- coscienza di unità: l’alienazione implica una frammentazione dell’Io, per cui le azioni non sono percepite come coerenti con la propria identità personale. Essere capaci di vedere le proprie azioni come parti integrante di un Sé coeso contrasta con l’esperienza alienata
- coscienza di identità: identificarsi con i propri scopi significa riconoscere una coerenza e continuità nella propria vita, elemento che è messo in crisi dall’alienazione. La perdita di questa continuità può portare a sentirsi alienati rispetto al proprio passato e futuro
- coscienza dei confini: l’alienazione spesso comporta una frattura tra il mondo interno dell’individuo e il mondo esterno, che può essere avvertito come estraneo o oppressivo. Superare l’alienazione implica ristabilire un equilibrio tra il Sé interno e le proprie interazioni con la realtà circostante.
È importante però confrontarsi con un professionista della salute mentale perché manifestazioni di estraneità o di alienazione possono essere parte anche di un più ampio disturbo. Vediamo più in dettaglio in quali circostanze possono presentarsi.
L’alienazione come sintomo in psicologia e in psichiatria
La parola alienazione, in senso lato, può essere usata sia in psichiatria che in psicologia, per definire fenomeni e sintomi molto differenti fra di loro.
In psichiatria, questo termine fa primariamente riferimento a delle manifestazioni sintomatologiche provocate dalla schizofrenia:
- tra i sintomi positivi, una percezione della realtà unica e personale, idiosincratica e non comprensibile dagli altri (deliri, allucinazioni)
- tra i sintomi negativi, la perdita della capacità di vivere come proprie le percezioni, le sensazioni del corpo, i pensieri, i sentimenti (appiattimento affettivo, apatia, abulia)
Se i contenuti del pensiero possono assumere qualità bizzarre o incomprensibili, i pensieri stessi possono essere vissuti come “imposti” o “rubati”.
Sensazioni di estraneità a sé sono però presenti, in forma diversa e più attenuata, in molti disturbi. In questi casi si parla di derealizzazione e depersonalizzazione; due esperienze accomunate da sensazioni soggettive di irrealtà e di estraneità a sé stessi. La prima implica una sensazione di distacco dall’ambiente circostante, la seconda la sensazione (ma non la certezza) che i propri sentimenti siano estranei, come se appartenessero a un’altra persona.
Questi sintomi possono comparire in presenza di diversi disturbi:
- nel disturbo post traumatico da stress
- nei disturbi d’ansia, in particolare in un attacco di panico
- nel disturbo depressivo maggiore
- nel disturbo borderline di personalità
- nel disturbo ossessivo-compulsivo
- nei disturbi dissociativi
- nell’astinenza da sostanze stupefacenti (alcool, cannabis, cocaina,anfetamine, oppiacei)
Sensazioni di alienazione, infine, possono insorgere nella sindrome da burnout. Il burnout è infatti descrivibile come uno stato risultante da uno stress cronico e irriducibile legato al luogo di lavoro, che è caratterizzato da tre dimensioni:
- sensazione di esaurimento delle energie
- distacco emotivo dal luogo di lavoro, accompagnato da sensazioni di negativismo o cinismo
- sensazioni di inefficacia e di mancanza di realizzazione.
Esperienze, queste, pienamente ascrivibili ai contesti lavorativi illustrati da Karl Marx nei suoi scritti.
Che cos’è l’alienazione parentale? L’alienazione come esito di relazioni familiari disfunzionali
Nello spettro di declinazioni del termine alienazione rientra anche il concetto di alienazione parentale o genitoriale. Con questo si fa riferimento a una teoria controversa, introdotta in ambito evolutivo, negli anni Ottanta, dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner: la sindrome da alienazione parentale (Parental Alienation Syndrome, PAS).
Gardner ha descritto una condizione in cui un genitore manipola il proprio figlio per far sì che rifiuti, tema o odi l’altro genitore. Questo comportamento può emergere durante contenziosi di custodia e divorzio e può includere la denigrazione dell’altro genitore, l’interferenza nella comunicazione tra questo e il figlio e altre azioni che mirano a danneggiare la relazione tra i due.
La conseguenza di questa condotta è un allontanamento affettivo e psicologico che può portare il bambino a respingere l’altro genitore, senza una ragione valida.
Come andremo a chiarire tra poco, la Parental Alienation Syndrome è una teoria, non una diagnosi. Essa, infatti, esprime – intuitivamente – i rischi cui può andare incontro un bambino esposto all’abuso emotivo e al comportamento manipolativo di un genitore (“genitore alienante”) che promuove un’immagine distorta e minacciosa dell’altro genitore (“genitore alienato”) per separare emotivamente il figlio da quest’ultimo. Non riesce, tuttavia, a provare scientificamente le implicazioni e gli effetti che ne derivano.
Assenza di criteri diagnostici scientifici
La sindrome da alienazione genitoriale è ricondotta da Gardner a una serie di manifestazioni emotive-comportamentali:
- campagna di screditamento portata avanti dal genitore alienante ai danni dell’ex partner
- motivazioni superficiali da parte del figlio per giustificare l’avversione nei riguardi del genitore alienato
- mancato riconoscimento da parte del bambino dell’influenza del genitore alienante sulle proprie opinioni e azioni
- assenza di ambivalenza nel bambino, che mitizza il genitore alienante e depreca l’altro
- sostegno incondizionato del figlio al genitore alienante
- mancanza di empatia e senso di colpa da parte del bambino verso il genitore alienato
- atteggiamento imitativo del bambino rispetto al genitore alienante
- ostilità verso la famiglia e gli amici del genitore alienato.
Tutti i “sintomi” finora descritti, tuttavia, non hanno validità diagnostica. Non ci sono, infatti, dati scientifici che avvalorino il percorso immaginato da Gardner, ovvero il progressivo sviluppo, da parte del bambino coinvolto in un quadro di PAS, di:
- bassa autostima
- deficit di empatia
- ansia da separazione provocata dalla paura di perdere ulteriori figure affettive
- confusione nelle relazioni emotive e affettive
- difficoltà nello stabilire relazioni sicure (manifestate attraverso disturbi dell’attaccamento)
- fobie o pensieri paranoici
- atteggiamento oppositivo e mancato riconoscimento dell’autorità.
- con il percorso di crescita e il passaggio all’età adulta, vulnerabilità a disturbi psicologici più gravi, come stati depressivi, disturbo narcisistico di personalità e dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti.
Proprio a causa della mancanza di un solido fondamento scientifico, la PAS non è riconosciuta dalla comunità scientifica né da quella legale. Per questo, la Corte di Cassazione, nel 2022, ha escluso la possibilità di farvi riferimento in tribunale.
Aggressività in ambito familiare
La PAS descrive uno dei possibili scenari nei quali, nella cornice di un funzionamento familiare disturbato o conflittuale, il sistema familiare esclude un membro. Lo stesso può avvenire in maniera meno eclatante ma, sul lungo periodo, non meno dannoso nel momento in cui i livelli di aggressività all’interno del nucleo familiare superino una certa soglia.
L’aggressività nel nucleo familiare può manifestarsi in diversi modi, tra cui:
- violenza verbale: insulti, urla, critiche costanti, minacce e umiliazioni
- violenza fisica: schiaffi, pugni, calci, spintoni o qualsiasi altra forma di violenza fisica diretta verso i membri della famiglia
- abuso sessuale: qualsiasi atto sessuale non consensuale, molestie o abuso sessuale all’interno della famiglia
- controllo delle risorse finanziarie, che può concretizzarsi in azioni come impedire l’accesso al denaro o l’indipendenza economica, costringere un membro della famiglia a essere dipendente finanziariamente
- atteggiamento passivo-aggressivo: comportamenti indiretti come fare ostruzionismo, ignorare intenzionalmente, procrastinare le richieste, dare il trattamento del silenzio
- aggressività simbolica: distruggere o danneggiare oggetti di valore affettivo per la vittima al fine di intimidirla o minacciarla.
L’aggressività in famiglia può avere gravi conseguenze per la salute mentale e fisica dei membri della famiglia, creando un ambiente di paura, insicurezza e instabilità.
Il consiglio, nel caso in cui la tensione fra genitori superi il livello di guardia, è sempre quello di avvalersi di un professionista della salute mentale per superare nel migliore dei modi il momento di crisi emotiva che sta attraversando il nucleo familiare, nell’interesse e nella tutela di tutti i suoi componenti.
(28 Agosto 2024)