La bulimia è un oscuro demone che affligge milioni di persone in tutto il mondo, trasformando il rapporto con il cibo in un pericoloso labirinto emotivo.
Questo disturbo dell’alimentazione costringe infatti coloro che ne soffrono a un circolo vizioso di abbuffate e comportamenti compensatori dannosi, con devastanti conseguenze sulla salute mentale e fisica.
Quali sono le sfide che affrontano le persone che vivono con questo disturbo?
In questo articolo, esploreremo la bulimia in tutta la sua complessità, analizzandone le cause psicologiche e ambientali, le diverse manifestazioni e gli effetti sul benessere psicofisico, per poi approfondire gli interventi terapeutici più efficaci per affrontarla al meglio e costruire una relazione sana e positiva con il cibo e con sé stessi.
Che cos’è la bulimia in parole semplici?
Il termine “bulimia” viene dal greco antico ed è composto dalle parole bôus e limós, ‘bue’ e ‘fame’; indica quindi, alla lettera, una fame da bue. Nel concreto, denota una condotta alimentare in cui grandi abbuffate di cibo si alternano a episodi di vomito autoindotto o periodi di depurazione. Questi episodi, caratterizzati da senso di colpa ed emozioni negative, servono a “pareggiare” l’eccessiva quantità di cibo ingerito.
La bulimia, insieme all’anoressia, è tra i disturbi alimentari più diffusi. In Italia questo disordine alimentare ha una prevalenza compresa tra l’1% e il 5%.
L’esordio del disturbo si assesta tra i 15 e i 18 anni, due date estremamente delicate e simboliche, che indicano la pubertà e l’ingresso nel mondo degli adulti, con tutto il carico di responsabilità e insicurezze che il passaggio comporta.
L’incidenza in Italia
Stando alla SISDCA, la Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, 12 donne su 100.000 si ammalano di bulimia, mentre i casi tra gli uomini sono 0,8 ogni 100.000 persone. A queste cifre di riferimento vanno affiancate altre due fasce d’età apparentemente insospettabili: bambine e bambini tra gli 8 e i 9 anni di età e adulti over 40.
La bulimia, come gli altri DCA, colpisce in oltre il 95% dei casi donne e ragazze, e solo meno del 4% uomini e ragazzi. Tuttavia, negli ultimi anni il numero dei pazienti bulimici di sesso maschile è in aumento.
Perché si soffre di bulimia?
I fattori che concorrono allo sviluppo della bulimia appartengono a sfere diverse della vita, interiore e sociale, di un individuo. Per certo, la persona che soffre di bulimia ha una percezione distorta dell’immagine del proprio corpo, oltre che del proprio peso.
A questa si associano diversi fattori di rischio di ordine psicologico:
- ansia e depressione
- difficoltà nella gestione dello stress
- scarsa autostima
- inclinazione a soffrire di ossessioni o compulsioni, se non di un vero e proprio disturbo ossessivo compulsivo.
Possono concorrere inoltre fattori di ordine ambientale, ovvero fatti, circostanze o eventi che potrebbero determinare condizionamenti nel vissuto di un individuo:
- l’importanza e il valore dati alla magrezza, equiparata in modo del tutto arbitrario alla bellezza è, a detta degli esperti, uno dei fattori ambientali che maggiormente hanno causato il diffondersi dei disturbi alimentari
- lavori e attività sportive che richiedono un fisico notevolmente magro
- lo stress emotivo, che può essere causato da molteplici eventi: la perdita di una persona cara o del lavoro, un trasferimento, la fine di una relazione
- la pubertà e i suoi cambiamenti possono rappresentare per l’adolescente una fonte di disagio molto potente
- le vittime di abusi sessuali e di violenze fisiche sembrano avere maggiori possibilità di sviluppare questa patologia.
Come si comporta una persona bulimica?
Le abbuffate a cui si abbandona una persona bulimica vengono di solito svolte in completa solitudine. E, al netto di questa estrema e disfunzionale oscillazione tra grande ingestione di cibo e attività compensatoria, la persona bulimica tende ad essere normopeso, perché spesso “si corregge” seguendo una dieta ferrea.
Sul piano emotivo, stati di ansia si alternano a sensazione di vuoto, la persona tende ad autocolpevolizzarsi e il senso di solitudine la allontana dal nucleo familiare e dalla cerchia degli affetti. Anche per questa ragione purtroppo a volte è difficile, per chi ha a che fare con una persona bulimica, accorgersi di cosa stia realmente accadendo.
Il cibo, assunto in quantità consistenti, viene utilizzato come strumento per riempire il senso di vuoto e di solitudine. Si innesta un circolo vizioso per il quale il troppo mangiare determina vergogna, la vergogna fa chiudere in sé la persona, e la solitudine viene colmata con il troppo mangiare.
Accanto all’ansia, quindi, si corre il rischio di sviluppare forme di depressione.
Quanti tipi di bulimia ci sono?
Vengono riconosciuti due tipi di bulimia.
Tipo di Bulimia | Descrizione |
---|---|
Bulimia purgativa | La persona affetta mette in atto condotte di eliminazione, quali vomito, assunzione di clisteri, lassativi, diuretici o altri farmaci simili. |
Bulimia non purgativa | La compensazione avviene tramite l’eccessiva attività fisica oppure il digiuno. |
Gravità del livello di bulimia
La gravità della bulimia può essere distinta in quattro fasi, a seconda del numero di attività compensatorie disfunzionali su base settimanale:
- lieve, ovvero fino a 3 episodi
- moderata, tra i 4 e i 7 episodi
- grave, fino ai 13 episodi
- estrema, dai 14 a più episodi.
Cosa succede al nostro corpo quando vomitiamo?
Come si è visto, il vomito è uno degli aspetti che più spesso – ma non necessariamente – contraddistinguono la bulimia. Per capire il “ruolo” e le implicazioni del vomito in un quadro clinico di bulimia, è utile analizzare nel dettaglio come funziona il meccanismo di espulsione gastrica.
Il processo del vomito, vale a dire l’espulsione del contenuto gastrico attraverso la bocca, è un fenomeno fisiologico che normalmente coinvolge una sequenza di eventi, nota come riflesso del vomito. Questo meccanismo è orchestrato da un centro nel midollo allungato, in risposta a stimoli emetici provenienti dal tratto gastrointestinale e dal sistema nervoso centrale.
Dal punto di vista fisico, quando è spontaneo, il vomito è preceduto da sintomi distintivi: nausea, pallore cutaneo, un aumento della frequenza cardiaca e della sudorazione e, infine, una serie di inspirazioni profonde cui segue la chiusura della glottide, e l’intensa contrazione dei muscoli addominali.
La combinazione di questi movimenti porta a un aumento della pressione addominale e a una compressione dello stomaco, che spinge lo sfintere esofageo inferiore a rilassarsi, consentendo al contenuto gastrico di risalire nell’esofago. Quando le contrazioni aumentano di intensità, si verifica l’espulsione del materiale gastrico attraverso la bocca.
Si parla di vomito autoindotto o forzato quando il meccanismo di espulsione gastrica è provocato volontariamente, ricorrendo all’inserimento in gola delle dita o, talvolta, di oggetti (come lo spazzolino da denti).
Cosa può provocare il vomito autoindotto?
La persona che ha un comportamento di tipo bulimico soffre di sintomi e ripercussioni che interessano il suo corpo e che riguardano più aspetti. Il ricorso frequente al vomito autoindotto può provocare una serie di gravi conseguenze che interessano diverse parti del corpo:
- uno dei primi danni evidenti si manifesta a livello dentale, con l’azione logorante dei succhi gastrici sullo smalto dei denti e sulla mucosa della bocca. Questo processo di logoramento può portare a una perdita permanente dello smalto dentale, in particolare al livello dei denti incisivi, oltre a un aumento della suscettibilità alle carie. Possono presentarsi lacerazioni delle labbra e degli angoli della bocca, risultanti dall’azione aggressiva dei succhi gastrici
- l’alito cattivo, con ghiandole gonfie, compare di frequente a causa delle ripetute infiammazioni
- dal punto di vista sistemico, le condotte di eliminazione associate alla bulimia possono provocare significativi squilibri elettrolitici, in particolare ipopotassiemia, iponatriemia e ipocloremia (carenza di potassio, sodio, cloro), da cui possono derivare numerosi disturbi: febbre, disturbi della digestione, alterazioni della pressione sanguigna, svenimenti, confusione, palpitazioni, convulsioni, aritmie fino all’arresto cardiaco
- la perdita di fluidi corporei può rendere la disidratazione una condizione cronica
- la perdita di acido gastrico attraverso il vomito può persino causare alcalosi metabolica (eccessiva alcalinità del sangue), prodotta da un aumento del bicarbonato sierico.
Sono altrettante le conseguenze indotte da altri aspetti della bulimia:
- l’intestino può manifestare costipazione o stitichezza, conseguenza dell’uso errato di lassativi
- può verificarsi un’acidosi metabolica (aumento dei livelli di acidi nell’organismo), anch’essa come effetto dell’abuso di lassativi
- possono insorgere problemi nella sfera e nel benessere sessuale: disfunzione erettile per l’uomo e anomalie del ciclo mestruale nella donna
- la pelle assume un colore che tende al giallo, oltre ad apparire più secca
- i capelli tendono ad essere più fragili.
La severità delle conseguenze è direttamente correlata alla gravità della bulimia.
Come si chiama la bulimia senza vomito?
Non sempre la bulimia prevede come episodio compensatorio il vomito. Nei casi in cui il paziente soffra di bulimia purgativa, infatti, la condotta di eliminazione può essere anche caratterizzata dall’abuso di lassativi o diuretici per facilitare l’evacuazione. Nella bulimia non purgativa, invece, l’abbuffata viene compensata attraverso altre modalità, come l’esercizio fisico e il digiuno.
È importante tuttavia distinguere la bulimia da un altro disturbo molto simile ma differente: l’iperfagia o binge-eating desorder. Come i pazienti bulimici, le persone affette da iperfagia vivono momenti in cui perdono il controllo sulla quantità di cibo che ingeriscono e riescono a consumarne grandi quantità anche in brevissimi periodi di tempo, spesso in modo frenetico e senza provare una vera e propria soddisfazione. Durante gli episodi di abbuffata, possono provare una sensazione di sfogo temporaneo o di comfort emotivo, ma spesso vengono colte da sentimenti di vergogna, colpa e disgusto per sé stesse.
A differenza della bulimia nervosa, però, nel binge eating non vi è il ricorso a comportamenti compensatori per cercare di eliminare le calorie assunte durante le abbuffate. L’iperfagia non è associata infatti a una preoccupazione eccessiva per il peso corporeo e la forma fisica e comporta dunque un aumento di peso.
Come la bulimia, anche l’iperfagia può avere gravi conseguenze sulla salute fisica e mentale delle persone coinvolte. Può portare a problemi di peso e obesità, con tutte le patologie correlate, ma anche a problemi psicologici come depressione, ansia e isolamento sociale.
Come capire se si soffre di bulimia?
Il DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, giunto alla quinta edizione rivisitata) fornisce dei criteri clinici per una diagnosi di bulimia nervosa:
- il soggetto, per tre mesi e per almeno una volta alla settimana, deve avere episodi in cui indulge ad abbuffate di cibo. Questi episodi si caratterizzano per la sensazione di perdere il controllo sulla propria alimentazione
- come per compensazione, il soggetto ricorre a comportamenti del tutto inadeguati per rimediare alle abbuffate di cibo. Questa compensazione viene definita spurgo bulimico
- il soggetto, infine, valuta sé stesso in modo improprio solo per il proprio peso e le forme, esprimendo eccessive preoccupazioni per il peso.
Una diagnosi spetta comunque a un professionista: uno psicologo, uno psichiatra, senza escludere figure quali medici esperti nei disturbi del comportamento alimentare e dietologi.
Il professionista parte da un esame obiettivo, nel quale ha modo di calcolare l’indice di massa corporea, osserva l’aspetto di capelli e pelle, valuta il ritmo cardiaco, il tono muscolare. Per poi dedicarsi a una indagine sulle condizioni della dentatura e del cavo orale.
Completano la diagnosi le analisi di laboratorio, un emocromo e il livello degli elettroliti.
Quale approccio terapeutico adottare?
Indipendentemente dall’approccio terapeutico scelto, l’obiettivo per il paziente consiste nel recuperare un rapporto sano e funzionale con il cibo, lavorando sulle cause e sui fattori a monte del disturbo alimentare.
Uno strumento essenziale è la psicoterapia, che può seguire diversi indirizzi:
- la terapia cognitivo comportamentale aiuta il paziente a riconoscere e lavorare sui propri pensieri distorti, così da sviluppare tecniche per disinnescarli
- la terapia familiare, indicata per i pazienti più giovani, coinvolge il nucleo familiare
- la terapia interpersonale estende la sfera di azione terapeutica all’ambiente, non solo familiare, in cui la persona bulimica è immersa, cercando di intercettare quali relazioni interpersonali abbiano inciso sull’esordio della patologia
- la terapia psicodinamica analizza le esperienze dolorose dell’infanzia e interpreta le emozioni del paziente, identificando i meccanismi di difesa introiettati e proiettivi. Come accade nella scissione, il paziente divide infatti i cibi in due categorie: nutritivi e non sani. Il cibo indicato come nutritivo può essere ingerito e trattenuto, perché simbolizza l’introiezione delle cose buone. Il cibo non sano è associato all’introiezione delle cose cattive e pertanto viene espulso attraverso il vomito, con la fantasia che tutte le cose distruttive, odiate e malvagie vengono evacuate. I pazienti possono sentirsi bene dopo il vomito a causa delle fantasie di evacuazione, ma i sentimenti associati di benessere hanno breve durata perché sono basati su una combinazione instabile di scissione e proiezione.
Il secondo strumento terapeutico è dato dagli antidepressivi. Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sembrano dare un valido contributo per tornare alla normalità. Bisogna considerare che i loro effetti arrivano dopo giorni, se non settimane, dalla prima assunzione, e che il dosaggio è un fattore fondamentale per la loro efficacia.
Un terzo importante momento del percorso di ripresa è rappresentato dalla riabilitazione alimentare, che permette di ritrovare un rapporto sano con l’alimentazione.
Cosa non dire a chi soffre di bulimia
Quando si parla con qualcuno che soffre di bulimia, è importante essere sensibili, comprensivi e consapevoli delle parole che si usano. Ecco quindi una lista di commenti o affermazioni da non dire a chi soffre di bulimia per creare un ambiente di supporto e comprensione:
- “mangia di più” o “mangia meno”: dare consigli sulla quantità di cibo che la persona dovrebbe consumare può essere molto dannoso e alimentare il senso di colpa o di vergogna legato al cibo
- “perché non provi una dieta?” o “dovresti perdere peso”: incoraggiare una persona con bulimia a seguire una dieta può peggiorare il suo rapporto con il cibo, creando ulteriori danni per la sua salute. L’ideale sarebbe non focalizzarsi sul peso o sull’aspetto fisico, ma piuttosto sui sentimenti e sul benessere emotivo
- “basta smettere di vomitare”: la bulimia è un disturbo complesso e smettere di vomitare non è semplice come prendere una decisione. La bulimia è spesso legata a questioni psicologiche profonde, quindi è importante essere comprensivi e offrire supporto nel percorso di recupero
- “sei egoista” o “non vuoi guarire”: la bulimia è una malattia seria e invalidante, e la persona che ne soffre sta affrontando una lotta interna. Mostrare empatia e sostegno invece che accusarla aiuterà il processo di guarigione
- “lo fai solo per attirare l’attenzione”: non bisogna sottovalutare la gravità della bulimia attribuendola a un desiderio di attenzione. Questo disturbo è caratterizzato da una forte sofferenza emotiva e richiede una presa in carico clinica
- “smetti di pensare al cibo”: semplici affermazioni come questa possono essere inutili e frustranti per chi lotta con la bulimia. Incoraggiare la persona a cercare aiuto professionale per affrontare le cause sottostanti del disturbo è molto più utile
- “devi solo essere più forte”: la bulimia non è una questione di mancanza di forza o volontà, è una malattia complessa che richiede un trattamento adeguato e un sostegno emotivo.
Prognosi
Il percorso di ripresa, nei casi di patologie come la bulimia, non è semplice né lineare. Con questa consapevolezza, in ogni caso la bulimia può avere una prognosi favorevole e positiva. Tendenzialmente, il periodo dei 10 anni dalla diagnosi è una data discriminante.
Entro questo arco di tempo infatti, precisamente fino ai 9 anni, il tasso di guarigione si assesta intorno al 68%. Si tratta di una percentuale estremamente incoraggiante, ma ciò vuol dire anche che circa un terzo delle persone che soffrono di bulimia tende ad avere delle ricadute.
Una prevenzione è possibile?
Quando si parla di prevenzione, si parla di interventi di tipo sanitario, e non, che anticipino quanto più possibile o intervengano ai primi segnali di malessere della persona, per ridurre gli effetti di questo disordine e intraprendere al più presto un’attività terapeutica.
Sono tre i tipi di prevenzione:
- primaria, per ridurre o eliminare i fattori di rischio per lo sviluppo della bulimia
- secondaria, per curare precocemente la patologia ed evitarne la cronicizzazione
- terziaria, per prevenire complicanze.
Nella cura della bulimia, come in molte altre patologie di ordine psicologico o psichiatrico, tutto parte dal soggetto e dalla comunità, familiare e affettiva, che lo circonda. Rivolgersi a un professionista, anche per un primo colloquio on-line, è un primo passo nella direzione della ripresa.
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(8 Gennaio 2025)